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Via Padova e sicurezza, qualche riflessione

di Dino Barra

Dallo scorso 10 marzo il tratto iniziale di via Padova da piazzale Loreto fino al numero civico 150 (con relative vie limitrofe) è oggetto di speciali e visibili misure di sicurezza con l’istituzione di presidi mobili delle forze dell’ordine e squadre di intervento di polizia pronte a intervenire su denuncia dei cittadini. Le misure sono state confermate con l’ingresso di via Padova nel novero delle “zone rosse” al pari di altre sette aree della città (le principali stazioni e luoghi della movida), cosa che comporta il mantenimento dei provvedimenti adottati almeno fino al prossimo settembre.

Non siamo in grado di valutare l’efficacia tecnica di questo provvedimento. Magari alla lunga si rivelerà utile alla diminuzione del numero dei reati. Ci sarebbe piaciuto, però, che la scelta di via Padova come “zona rossa” fosse accompagnata dalla pubblicizzazione di dati capaci di confortare questa scelta, al di là delle lamentele di alcuni cittadini e di alcuni sedicenti comitati circa il presunto “degrado” della zona.

A distanza di più di un mese dall’inizio dei presidi quel che si constata è l’ostentazione di mezzi di polizia in luoghi molto frequentati ma dal tasso di pericolosità alquanto discutibile (davanti ai due ingressi del Trotter in via Giacosa 46 e via Padova 69 all’ora di ingresso dei bambini a scuola, ad esempio) e il continuare a verificarsi di episodi minacciosi per l’incolumità pubblica in luoghi non lontani dalla presenza mobile delle forze dell’ordine. L’impressione – e qualcosa di più che l’impressione – è che una siffatta e così visibile presenza di polizia produca, più che una soluzione del problema, uno spostamento del problema stesso, pronto a ripresentarsi nei luoghi originari quando la presenza delle unità mobili dovesse cessare. Questo tipo di misure sembra corrispondere, in altre parole, a obiettivi di tipo psicologico (rassicurare i cittadini inquieti) e anche propagandistico più che a criteri di efficacia.

È pur vero che il problema esiste. Soprattutto in alcuni angoli della via (via Padova è lunga quasi 5 km e riferirsi ad essa in modo generico è fuorviante) si osserva la presenza di attività di spaccio e microcriminalità con conseguente verificarsi di risse e comportamenti che mettono a rischio la serenità della convivenza civile. Per quel che è dato di vedere, gli autori di questi comportamenti sono in genere ragazzi, in numero non trascurabile anche minori, privi di riferimenti familiari, lavorativi e assistenziali, molti dei quali senza fissa dimora, o con dimora soprattutto in situazioni ad alto disagio abitativo. Poco o nulla si sa di coloro che regolano dall’alto lo spaccio di stupefacenti e l’attività di questi piccoli spacciatori. In altri angoli della via si osserva poi il fenomeno dell’ubriachezza molesta.

Le associazioni di cittadini storicamente attive in zona – non i comitati estemporanei – hanno a più riprese denunciato l’esistenza di questi problemi dando vita anche a forme – come dire? – di sicurezza partecipata attraverso incontri ricorrenti con le forze dell’ordine che sono intervenute con le modalità investigative che gli sono proprie, attente, ci sembra, più a criteri di efficacia che a intenti propagandistici. È convinzione diffusa delle associazioni che non si può prescindere da un presidio efficace del territorio (ovviamente rispettoso del dettato costituzionale), soprattutto in momenti di particolare emergenza. È diventato anche chiaro, però, che l’intervento repressivo delle forze dell’ordine tampona o sposta ma non risolve i problemi della sicurezza. La ricerca delle soluzioni non può che essere affidata all’adozione di misure di medio periodo finalizzate a migliorare la vivibilità del quartiere, l’accoglienza, l’intervento assistenziale, le condizioni di vita di tutte le persone (a partire dal soddisfacimento di diritti essenziali come istruzione, lavoro, casa, servizi pubblici). Con questa consapevolezza, molte delle associazioni di via Padova si sono impegnate non solo nell’esigere un migliore presidio del territorio ma anche nel dare vita, pur nel loro piccolo e con i mezzi limitati di cui dispongono, a occasioni di incontro e di solidarietà “orizzontale” tra gli abitanti della via. È da questo impegno che nascono le feste di strada, le attività di doposcuola e di insegnamento dell’italiano lingua 2, l’apertura di biblioteche popolari e autogestite, la distribuzione di pacchi spesa per le famiglie bisognose, tutte attività che coinvolgono i residenti a prescindere dalle loro appartenenze culturali, religiose, geografiche. Queste e altre sono le attività che caratterizzano l’impegno delle associazioni e dei cittadini realmente interessati alla soluzione dei problemi, attraverso la pratica solidaristica che è l’unica via. Altri gruppi – in genere piuttosto aleatori – prediligono la visceralità delle opinioni e la strumentalizzazione delle frustrazioni sociali in chiave politico-elettoralistica.  

L’impegno solidaristico delle associazioni, tuttavia, indica la via ma non risolve i problemi. Dei temi della sicurezza che non può che essere in primo luogo sicurezza sociale dovrebbero farsi carico i decisori politici comunali attraverso lo spostamento di maggiori risorse verso le politiche sociali, cosa che non avviene o avviene in misura non adeguata. Sarebbe lungo argomentare su questo. Ci limitiamo a fare un riferimento seppur fugace al tema della casa. A chiunque conosca quel che accade nella via Padova è chiaro che le situazioni più problematiche sotto il profilo della convivenza civile si verificano in prossimità di contesti di forte disagio abitativo caratterizzati da sovraffollamento, subaffitto e abitare informale. Qui vivono persone economicamente non in grado di accedere al mercato dell’affitto, nella grandissima parte – è bene ricordarlo – famiglie oneste e giovani alle prese con la dura fatica del lavoro precario, ma anche fasce minoritarie di marginalità sociale senza punti di riferimento, portatrici di comportamenti anche illegali, per le quali l’abitare informale rappresenta l’unica possibilità di accedere a una dimora. Bisognerebbe forse intervenire su queste situazioni garantendo il risanamento di stabili spesso fatiscenti e controlli sulle condizioni di sovraffollamento e sui proprietari che le alimentano. Soprattutto, occorrerebbe assicurare un tetto alle persone ora costrette a vivere in queste situazioni, attraverso il recupero delle case popolari non utilizzate e dei vuoti urbani – palazzi abbandonati da tempo, presenti anche in zona, quelli sì fonte di degrado – da destinare ad alloggi sociali sottratti alla logica del mercato: progetti di risanamento socio-abitativo capaci di sottrarre terreno al proliferare di comportamenti lesivi della sicurezza comune. Ma di questo tipo di progetti non vi è traccia nell’orizzonte delle attuali politiche pubbliche, e i decisori politici comunali sembrano piuttosto considerare i contesti di precarietà abitativa – in via Padova e nella città – quasi un male necessario ma a costo zero per contenere la domanda di case, oppure un problema da risolvere dando libero campo ai fenomeni di valorizzazione della rendita urbana con conseguente espulsione dei ceti sociali più fragili (e anche del ceto medio). 

Qualcuno sostiene che il permanere di problemi di sicurezza in via Padova, la via considerata la più multiculturale della città, è la dimostrazione di una integrazione impossibile da realizzare. Posizione molto discutibile che volutamente ignora i processi di integrazione molecolare che nonostante tutto vanno avanti nelle scuole, sul lavoro, nei cortili, negli spazi pubblici e che non tiene in conto il fatto che la scommessa dell’integrazione e della sicurezza dipende soprattutto da quanto si è disposti a investire – come decisori pubblici – sui temi della sicurezza sociale.

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