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Sgomberato lo storico centro sociale Leoncavallo a Greco

di Giovanna Fumarola

Non a las cinco de la tarde, come la famosa corrida di García Lorca, ma alle sette e trenta del 21 agosto, a sorpresa, le forze dell’ordine in assetto da guerriglia urbana hanno bloccato l’accesso a via Watteau per sgomberare il centro sociale Leoncavallo, il più famoso d’Italia, dopo 50 anni di attività in diverse sedi. «L’intervento sul Leoncavallo era sì previsto, ma per il 9 settembre», ha commentato il sindaco Beppe Sala, «in considerazione di questa timeline ufficiale, come Comune avevamo continuato, con i responsabili del Leoncavallo, un confronto che portasse alla piena legalità tutta l’iniziativa del centro.

Come sottolineato da alcuni quotidiani, si stavano valutando varie soluzioni a norma di legge, che potessero andare nel senso auspicato. Sono convinto, e l’ho già dichiarato in precedenza, che il Leoncavallo rivesta un valore storico e sociale nella nostra città». Inutile girarci intorno: il Leonka a Greco è divisivo: c’è chi da anni lamentava rumore troppo forte durante i concerti – lo stesso che conosce bene chi abita vicino allo stadio Meazza, ai locali della Darsena o a una delle tante discoteche alla moda di Milano – qualche avanzo di spazzatura dopo gli eventi più frequentati, l’illegalità stessa dell’occupazione dello stabile, di proprietà della famiglia Cabassi, che ora rivendica dal Ministero dell’Interno 3 milioni di euro, soldi che il Viminale ha poi chiesto a Marina Boer, la responsabile legale dell’associazione Mamme del Leoncavallo.

Nessuno può pensare che occupare illegalmente sia lecito, ma vero è che in ogni grande metropoli d’Europa accade che in principio edifici abbandonati vengano occupati e riadattati per poter offrire a basso costo occasioni culturali e sociali all’intera cittadinanza, finendo per diventare presidio di sicurezza. Di solito, le amministrazioni più illuminate trattano per sanare l’illegalità, e permettere a realtà di questo tipo il prosieguo delle loro attività, nel rispetto della legge, dei vincoli ambientali, del rumore consentito in orari prestabiliti.

Quando non accade, è anche perché c’è ancora chi pensa che il centro sociale sia un luogo pericoloso, ma occorre prendere atto che nel quartiere sono ben altri i pericoli. Greco sta diventando un dormitorio, comodo perché vicinissimo alla Stazione Centrale, a 10 minuti in bici da piazza Gae Aulenti e il Bosco Verticale. È una periferia non periferia, ma se si desidera abitarlo da un punto di vista umano e sociale, senza doversi allontanare per fare compere, bere un caffè in pace con gli amici, andare al cinema, le opzioni sono ridotte all’osso, alle realtà virtuose del Refettorio Ambrosiano e di Giardino Bing. Per strada, anche a orari diurni, una donna difficilmente riesce a camminare senza essere importunata. Il naviglio Martesana, unico luogo veramente bello, è abitato da senza tetto che dormono sotto i ponti o stazionano sulle panchine, tutti uomini soli e senza attività lavorativa, con l‘inevitabile carico di frustrazione e possibile violenza.

Una problematica a livello nazionale, per affrontare la quale i comuni spesso vengono lasciati soli, a concertare col terzo settore interventi che mettano una toppa. I cestini della spazzatura traboccano; in alcuni punti, nonostante la solerte attività di Amsa, è discarica a cielo aperto: materassi, vecchi mobili abbandonati, frigoriferi e quant’altro. Tre soli veri negozi in piazza: la storica cartoleria di Rossella, che racconta la fatica e paura quotidiana quando entrano di tanto in tanto personaggi molesti; l’ottica Testoni; il macellaio Bianchin.

Hanno molto costruito a Greco, non c’è quasi più uno spazio libero, e l’erba cantata da Celentano è una lontana chimera. Costruiscono case costose, che solo chi è benestante può permettersi. La gente compra e poi si barrica dentro, per loro il quartiere non esiste, come potrebbero apprezzarlo, ridotto così? Circondato dalla ferrovia, su un piano architettonico poco si può fare perché diventi oggettivamente bello, con molti edifici anni Cinquanta realizzati a basso costo per ospitare le famiglie che negli anni Sessanta-Settanta andavano a lavorare nelle fabbriche di Sesto San Giovanni. Purtroppo, ha completamente perso quell’aura da vecchio borgo operaio milanese che un tempo aveva, perché vivace, vissuto, autentico. Ora ha perso anche il Leoncavallo.

Qui venivano organizzati numerosi eventi: dai concerti ai corsi di fotografia e di lingue, dalla serigrafia al laboratorio di teatro, dalla ciclofficina alla radio, dalla cucina popolare all’accoglienza per i migranti e i senzatetto. Tra queste mura hanno mosso i primi passi molte realtà artistiche, non solo musicali, e, proprio su queste mura, hanno lasciato i loro murales celebri writers e street artists, alcuni dei quali raccolti nel catalogo I graffiti del Leoncavallo, edito da Skira, che nel 2006 ha portato l’allora assessore alla cultura Vittorio Sgarbi a definire il Leoncavallo, “La Cappella Sistina della contemporaneità“.

Greco perde qualcosa e conquisterà le ennesime nuove case, nelle quali chiudersi a doppia mandata per non vedere cosa c’è fuori. Questo evento deve interrogarci su che tipo di quartiere e di città vogliamo. Se una città viva o una città morta. I permessi per costruire devono andare di pari passo con un pensiero umanista su cosa ci sarà intorno alle case, quale vita, quale socialità. Quali spazi Milano riesce a garantire a chi promuove forme di aggregazione giovanile che non siano solo legate alle logiche del mercato?

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