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Sette settimane lontano dalla famiglia per curare i malati Covid-19

Intervista a Marco Gemma, primario di terapia intensiva dell’ospedale Fatebenefratelli.

«Tra i numerosi effetti devastanti del Covid-19, registriamo in questo periodo – dichiara il primario Marco Gemma all’inizio della conversazione – una frequenza rilevante in Pronto Soccorso di persone che hanno subìto violenze fisiche o che hanno tentato il suicido. Inoltre, ci vengono riferiti numerosi casi di persone che si rifiutano di uscire di casa e sono non solo anziani e giovani, ma spesso adolescenti e preadolescenti!».

Marco Gemma, direttore dell’Unità di Terapia Intensiva degli ospedali Fatebenefratelli
Marco Gemma, direttore dell’Unità di Terapia Intensiva degli ospedali Fatebenefratelli

Grazie alla disponibilità del professor Marco Gemma, direttore dell’Unità di Terapia Intensiva degli ospedali Fatebenefratelli e Macedonio Melloni, gli abbiamo chiesto di raccontarci la stravolgente esperienza vissuta in questi mesi per combattere il Coronavirus.

«Come è ormai noto, – afferma il dottor Gemma avviando il suo racconto – il Covid 19 produce una malattia nuova per la nostra scienza diagnostica e quindi ci ha colto tutti alla sprovvista. Psicologicamente poi , noi sanitari siamo abituati a trattare casi in cui il paziente subisce la malattia anche con un rischio di morte, ma nel caso del Covid-19 il rischio del contagio è aperto a tutti, agli stessi operatori sanitari e alle proprie famiglie, a volte senza potersi proteggere in maniera adeguata. Questa era soprattutto la situazione iniziale, tant’è che ci sono stati tanti decessi anche nella nostra categoria. E quindi eravamo tutti spaventati. Di conseguenza, in breve tempo abbiamo dovuto adeguare le protezioni a uno standard elevato, utilizzando non solo mascherine, guanti e occhiali, ma anche tute e caschi prima di assistere i pazienti portati in terapia intensiva.

Un muro e una porta separavano i locali infetti da quelli dove ci preparavamo per entrare in azione, e tutte le volte che si superava quel muro mi sembrava di scendere in miniera. Noi siamo abituati purtroppo tutti i giorni a convivere con degenti a rischio di morire, ma in questo caso vedere morire tanta gente in così poco tempo, nonostante tutti i nostri interventi, era veramente duro. La mortalità infatti era elevatissima; la malattia colpiva persone spesso sane. Le persone muoiono non per causa diretta del virus, ma per effetto della reazione immunitaria al virus. Dopo una prima fase di prevalenza di mortalità tra le persone più anziane, hanno cominciato nel tempo ad ammalarsi persone via via più giovani.

Durante l’emergenza Covid-19 succedeva poi qualcosa di non frequente nella nostra normale pratica clinica: intubare diversi malati in piena coscienza, perché non ancora addormentati, con gli occhi sbarrati dal panico. Malati che dopo il ricovero hanno salutato i parenti senza averli mai più visti, con una sofferenza straziante di abbandono e di isolamento.

Io sono stato sette settimane lontano dalla mia famiglia, dormendo qualche ora per notte, raramente sono riuscito a dormire con continuità oltre un’ora».

Ricorda qualche episodio che ha colpito in modo particolare la sua sensibilità di uomo oltre che di professionista?

«Ricordo che, quando la situazione ha cominciato a essere tragica in ospedale per l’esplosione del Covid, una delle mie più bravi collaboratrici mi ha chiesto “Direttore, ma quando finirà tutto questo riusciremo ancora a trovarci in studio e ci saremo tutti?”. Detto da una persona molto esperta che ne ha viste di tutti colori, mi ha dato il segno della paura per sé e per i suoi colleghi e mi ha molto colpito. Un altro ricordo si riferisce a un paziente che, mentre veniva intubato data la sua gravità, mi ha chiesto con gli occhi tristi di chiamare la moglie per un saluto da parte sua».

Quali sono state le motivazioni forti che hanno spinto i sanitari a un livello così alto di generosa abnegazione?

«Sottolineo che molti di noi sanitari rifiutano di essere chiamati “eroi” e cito sempre la rilettura del libro La peste di Camus, che raccomando a tutti di leggere, perché si adatta tantissimo a quello che è successo da noi. In una sua pagina l’autore dichiara “non ci si può complimentare con un maestro di scuola perché insegna bene, al massimo ci si può complimentare con lui perché ha scelto bene la sua professione”».

Qual è il livello probabilistico, secondo lei, di una nuova ondata dell’epidemia nell’autunno-inverno?

«Motivi perché ci debba essere una riesplosione epidemica non ce ne sono da un punto di vista strettamente tecnico, ferma restando l’applicazione delle misure precauzionali note da una parte, e dall’altra l’aumentata nostra capacità terapeutica di intervento conseguente a una maggiore conoscenza del virus. Abbiamo riscontrato una riduzione graduale della gravità del virus. All’inizio dell’epidemia avevamo il 10% dei pazienti che arrivavano in gravi condizioni, da ricoverare in terapia intensiva. Via via questa percentuale è continuamente scesa e oggi all’ospedale Sacco, che è il principale riferimento che fa da collettore, ci sono zero malati di Covid in rianimazione. I morti che si registrano adesso sono malati gravi senza speranza di vita, ricoverati da diverse settimane in terapia intensiva».

Qual era, all’inizio dell’epidemia, la ricettività dell’Unità Operativa Complessa di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale Fatebenefratelli, dove lei opera?

«Per la terapia intensiva l’ospedale Fatebenefratelli è accreditato per 14 posti, in realtà prima del Covid-19 abbiamo lavorato su 6 letti per carenza di personale. Con l’arrivo del Covid i letti sono stati portati a 18 estensibili a 22, mettendo letti persino nell’unità coronarica. Adesso, a fine Covid, si pensa di attestarci su 10 letti, estensibili a 12 in caso di emergenza. Si pensa, inoltre, di allestire in un’altra ala dell’ospedale altri 6 posti di terapia semi-intensiva, se avremo finanziamenti sufficienti per farlo».

Molte critiche sono state rivolte alla Regione Lombardia in relazione al numero di posti letto, che è stato incrementato nella sanità privata a scapito di quella pubblica. Quale il suo commento?

«La Lombardia, prima dell’arrivo del Covid, aveva 800 letti circa, occupati all’80%, che rappresentava un buon livello; l’arrivo del Covid ha richiesto 1.500 letti nella sua fase acuta. Tanti anni fa la Regione Lombardia ha scelto di potenziare la sanità privata. Adesso è inutile polemizzare sul fatto che la Regione si è appoggiata durante l’emergenza Covid alla sanità privata: si è appoggiata su quello che aveva. Se si voleva fare una critica doveva essere sostenuta all’origine, al momento delle scelte iniziali.
Durante la crisi la Regione ha gestito quello di cui disponeva. Del resto, due ospedali che hanno fatto di più durante la crisi Covid sono stati Humanitas e San Raffaele. Basti dire che JAMA, Journal of the American Medical Association, una delle riviste mediche più prestigiose al mondo, ha indicato tra i primi tre medici “Eroi della pandemia” a livello planetario, l’italiano Maurizio Cecconi, direttore del Dipartimento Anestesia e Terapie intensive dell’ospedale Humanitas di Rozzano. San Raffaele ha bloccato tutto l’ospedale per affrontare la crisi del Covid e ha recuperato altri spazi del suo territorio per attrezzarli e dedicarli alla cura della pandemia».

Quali sono gli insegnamenti che si possono trarre dalla triste esperienza dell’epidemia Coronavirus?

«Da un punto di vista medico abbiamo imparato tanto. Da un punto di vista tecnico-organizzativo occorre fare dei lavori strutturali negli ospedali, sia sul piano impiantistico, sia su quello delle apparecchiature. Per esempio all’interno dell’ospedale non arriva dappertutto l’ossigeno con prese e la necessaria pressione. E questo è stato abbastanza recepito dalla Regione, che ci ha già chiesto quale tipo di ampliamento siamo in grado di fare.

In ogni caso quando si progetta e si costruisce un ospedale, occorre avere una visione surdimensionata dei bisogni e quindi dell’impiantistica e delle apparecchiature».

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