di Roberta Osculati – vicepresidente del Consiglio comunale di Milano
All’inizio del nuovo anno scolastico, fa riflettere il vuoto certificato dall’autunno demografico italiano, che negli ultimi 10 anni ha cancellato più del 10% di studenti.
Le proiezioni Istat prevedono che, nei prossimi dieci anni in Italia, mancheranno all’appello complessivamente 500mila studenti nelle scuole superiori, 300mila nelle medie, 400mila nelle primarie e oltre 156mila nelle scuole dell’infanzia. Registrando queste “assenze”, l’Italia si trova di fronte a una delle tante conseguenze dirette del calo demografico: la riduzione significativa delle classi scolastiche.
Il calo della popolazione studentesca rimodellerà inevitabilmente il futuro della scuola italiana, sia in termini di personale scolastico che relativamente alla diffusione territoriale delle stesse scuole.
Già nella scorsa primavera, il Governo aveva prospettato il taglio di 5.660 unità di personale docente dal prossimo anno scolastico, dai docenti ai dirigenti, come previsto dalla legge di bilancio, e il taglio di 2.174 posti nell’organico che interessa il personale amministrativo, quello tecnico e ausiliario (ATA).
Le conseguenze di questo taglio riguarderanno i posti comuni, ovvero quelli che servono per ridurre i numeri degli alunni per classe e ciò potrebbe comportare la cancellazione di intere classi, soprattutto nelle scuole più piccole e decentrate (già oggetto di dimensionamento), causandone la chiusura definitiva. Infatti, le scuole più piccole e decentrate sono le prime a scomparire dalla cartina geografica dell’istituzione scolastica: oltre 3.800 scuole sono già chiuse nelle aree interne e il Piano Strategico Nazionale, approvato ad aprile dal Governo, prevede di sacrificare altri 1.200 istituti al declino demografico entro il 2030. Tra l’altro, in zone dove già i livelli di apprendimento sono più bassi e dove maggiore è il tasso di abbandono scolastico rispetto ai centri urbani.
Quando parliamo di aree interne, intendiamo quei territori del nostro bel Paese distanti dai principali centri di offerta di servizi essenziali, in particolare quelli relativi all’istruzione, alla mobilità e ai servizi socio-sanitari. Si tratta di circa 4.000 comuni, per un totale di circa 13,4 milioni di abitanti, zone che corrono fortemente il rischio dello spopolamento e dell’invecchiamento della popolazione, perché – se la qualità dell’offerta educativa risulta compromessa o se addirittura le scuole chiudono – quale giovane famiglia sceglierà mai di rimanervi e di far crescere i propri figli? La demolizione di un presidio culturale colpisce innanzitutto la coesione sociale e trascina poi con sé un inesorabile abbandono.
Le proiezioni Istat mostrano che oltre l’82% dei comuni delle aree interne perderà popolazione entro il 2043, con picchi del 93% al Sud. Solo nel 2024 risultano 358 i comuni italiani a zero nascite, concentrati quasi esclusivamente nel Mezzogiorno, dove il rapporto tra over 65 e under 15 raggiunge 2,5 a 1.
Eppure, esiste anche una Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI) che mira a contrastare la desertificazione con interventi specifici, valorizzando le risorse locali e potenziando proprio l’offerta di servizi fondamentali, quali per esempio – appunto! – la scuola.
Invece, il Governo alza le mani di fronte a quello che viene definito uno “spopolamento irreversibile” e senza speranza e si limita ad “accompagnare” l’inesorabile declino e invecchiamento di tali aree, senza minimamente porsi alcun obiettivo per invertirne la tendenza. Insomma, il cosiddetto “piano strategico” altro non è che la certificazione dell’assoluta mancanza di una visione capace di identificare, far risaltare e valorizzare le opportunità strategiche dei territori interni, quali l’agricoltura sostenibile, il turismo lento, le energie rinnovabili, la difesa dell’ambiente.
Il risultato non potrà che essere la certificazione di un’Italia a due velocità, dove le periferie non saranno più oggetto di attenzioni politiche dedicate finalizzate al recupero e verranno considerate semplicemente come aree di gestione passiva, finché non verranno completamente e definitivamente abbandonate.
Mentre in Europa si investe su programmi di sviluppo rurale con fondi che mirano a migliorare la competitività delle imprese agricole, proteggere l’ambiente, promuovere l’innovazione, la digitalizzazione e l’inclusione sociale, garantendo uno sviluppo economico sostenibile delle zone interne, in Italia manca del tutto una visione politica a lungo termine sullo sviluppo dei territori e si sceglie di accompagnare a una morte lenta alcuni territori, compromettendo irreversibilmente il diritto all’istruzione e la coesione nazionale.




