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Minerva Milano, un calcio ai pregiudizi

Intervista a Francesca Babusci, presidente del Minerva Milano, scuola di calcio femminile e per i ragazzi con disabilità

Il Minerva Milano nasce nel 2016 dal rebranding di Femminile Ausonia, prima Squadra Femminile FIGC. Si allena presso il Centro Sportivo di via Treviglio, angolo via Ponte Nuovo, tra Gorla e Crescenzago. Oltre ad aggiudicarsi nel 2018 il bando per la concessione del centro sportivo, dal 2019 sigla un accordo con AC Milan per la nascita della prima Scuola Calcio Femminile Milan. Ne parliamo con il presidente Francesca Babusci.

Perché hai scelto di far parte di un mondo come quello del calcio femminile?

Perché è il mondo da cui arrivo e che da piccola non mi era stato concesso di frequentare, quindi ho pensato che la possibilità che non ho avuto da piccola fosse giusto darla alle bambine di oggi.

Cos’hai provato quando sei entrata a far parte del Minerva Milano?

Minerva Milano è nata con noi. Minerva è la dea della guerra, leale e onesta e ci sembrava un nome adatto, sia perché femminile e anche per gli ideali che rappresenta. Abbiamo due motti fondamentali qui dentro: “Ubuntu” e “Tukiki”. Ubuntu rientra anche nel logo di Minerva e vuol dire “Io sono quello che sono grazie a quello che siamo tutti insieme”, vale a dire che se raggiungo il successo lasciando gli altri indietro, è un successo che non vale niente. Invece Tukiki è il nome del progetto legato ai ragazzi con disabilità e vuol dire “Sorridi”. Non bisogna pensare al calcio come a un’attività che costruisce campioni, ma come a un’attività che faccia stare bene le persone, che crei una comunità.

Minerva è un’associazione di volontari?

Nasce come associazione sportiva poi, soprattutto per il progetto Tukiki, negli anni abbiamo coinvolto più volontari che, in realtà, erano nostre amiche. La cosa bella del calcio femminile, è che c’è la possibilità di conoscersi tutte. Conosciamo le ragazze che giocano in serie A, anche se il nostro un livello completamente diverso.

Ti aspettavi una realtà del genere?

Per le bambine l’abbiamo creata noi, l’abbiamo fatta crescere vivendola. Quindi era già nella nostra testa, mia e di altre ragazze perché, ripeto, da soli non si fa nulla. Se non avessi avuto il sostegno, l’appoggio e l’inventiva dei miei compagni di squadra dei tempi, questo oggi non ci sarebbe.

Cosa ti ha colpito di più nel fare la presidente?

Il fatto di vedere un centro sportivo popolato da bambine di tutte le età era quello che speravamo e che si è realizzato dopo molti anni di lavoro. E vedere oggi un campo pieno di donne e di bambine, mi fa dire “Okay, sono sulla strada giusta”. Lo stesso con il progetto Tukiki, nel senso che quando vedi che è stato possibile creare una cosa che sta camminando bene, si sta ingrandendo sempre di più e sta ricevendo apprezzamenti, vuol dire che abbiamo ancora tanta strada da fare, però lo stiamo facendo bene.

Dall’esterno come venite percepite?

Purtroppo siamo poco conosciuti, ma è molto ben vista. Non siamo ancora riusciti a farci conoscere a sufficienza. E quindi è bello vedere quando intercettiamo qualcuno che rimane colpito, entusiasta. Però ci rendiamo conto che dobbiamo migliorare sotto il profilo comunicativo.

E com’è il rapporto con il quartiere?

Normale. Nel senso che siamo arrivate come affittuarie non sapendo cosa ci aspettasse. Quindi per noi questa è un zona completamente nuova, sconosciuta, però nei primi due anni di attività non abbiamo mai avuto nessun problema. La sera non è mai successo niente, le ragazze non hanno mai lamentato nessun episodio strano, e questo ci ha fatto pensare di essere nella zona “giusta”. Ci siamo sentite accolte bene.

Quali sono i fattori fondamentali per essere un buon direttore sportivo?

Credo che in qualsiasi ruolo, non solo quello del direttore sportivo, si debba avere empatia. È fondamentale, soprattutto quando si ha che fare con persone tanto diverse; dai bambini alle bambine, a gente di quaranta, cinquant’anni che comunque gira intorno a questo mondo, perché nel nostro caso una società di calcio è fatta dagli atleti, ma anche dalle famiglie, dallo staff, da tante mentalità diverse, quindi devi essere bravissimo a far dialogare tutti. Questa secondo me è la caratteristica principale, che va al di là delle competenze specifiche tecniche e professionali. Se non hai quello, lascia perdere.

Avete un obiettivo per questa stagione?

L’obiettivo in questi due anni di Covid è stato di fare attività. Se durante una stagione normale è strutturarsi al meglio, creare eventi e più opportunità per tutti, oggi è di fare attività.

Quanto incide il calcio femminile in Lombardia?

Tanto, in Lombardia è sempre stato molto presente, ma purtroppo relegato in secondo piano rispetto all’attività maschile. Anche per una questione di spazi, le femmine sono più limitate. Magari hanno uno spogliatoio più distante o meno moderno, una porzione di campo meno grande, ma è anche un discorso di abitudine a fare un’attività. Le femmine sono un mondo diverso, che ci piaccia o meno, e richiede attenzioni diverse che devi essere pronto a dare.

Quindi è proprio un metodo diverso di insegnamento del calcio?

Il calcio è lo stesso, a livello tecnico è identico. Cambia tutta la parte mentale. Sicuramente i bambini sono molto simili, quindi non vedi grandi differenze. Però crescendo, la donna ha una testa diversa.

Hai un sogno da presidente?

È quello di sistemare questa “casa”, che è l’unico modo per dare continuità a tutto quello che stiamo facendo. Vorremmo arrivare a un punto, insieme alle ragazze dello staff, in cui se per qualsiasi motivo non potessimo più prestarci, si possa far sì che lo sforzo fatto fino ad oggi non venga vanificato.

Economicamente come vi sostenete?

Ad oggi, non abbiamo ancora potuto affrontare nessun intervento strutturale, pensiamo esclusivamente all’attività. Chiaramente tutti gli atleti pagano un quota con cui sosteniamo il costo dello staff e una parte piccola delle spese. L’introito maggiore arriva dagli affitti dei campi agli esterni che ci consentono di pagare le bollette e il canone annuale, problemi che stanno diventando però sempre più seri per tutti.

Gli stereotipi sul calcio femminile, grazie anche alla partecipazione delle azzurre al mondiale, si stanno spegnendo?

Sono molto positiva, perché in realtà vedo il cambiamento dei genitori. Ogni anno a giugno e settembre ci sono gli open day per le bambine, questo ci ha permesso negli anni di vedere il cambiamento. Il genitore spesso ci dice che è molto contento. Poi sicuramente è contata molto la partecipazione agli europei della nazionale femminile.

Ci sono giovani speranze in squadra?

Sicuramente le piccole, sono qua da due o tre anni e hanno iniziato a masticare calcio a sei sette anni. Adesso le più forti che sono le ragazze che hanno sempre giocato nelle maschili e quindi hanno iniziato molto presto.

Qualche giocatrice famosa viene da questa zona o da questo campo?

No, perché da noi il calcio femminile è iniziato cinque anni fa, prima era maschile, quindi no, per ora non abbiamo visto sbocciare nessun fenomeno, ma perché è ancora presto, però sicuramente ci sono tante ragazze brave.

Durante il lockdown avete mantenuto i contatti con bambine e famiglie?

Sì, abbiamo scoperto Zoom e subito, anche con i ragazzi del Tukiki, abbiamo fatto attività. Anche a livello emotivo è stato difficile per tutti perché il primo lockdown era ancora surreale. Il secondo, emotivamente parlando, è stato devastante per tutti. Per fortuna è durato poco, nel senso che abbiamo sempre avuto la possibilità di fare sport individuale.

Avete perso qualche pezzo a causa del lockdown? Qualcuno ha rinunciato?

Abbiamo avuto pochi casi, però tra quelli che più mi hanno colpito c’è stato quello di una bambina di sei anni, straentusiasta di venire, poi ci sono state le vacanze di Natale e il Covid, e da quel momento non ha più voluto sentir parlare di centro sportivo, amiche, calcio.

Quanto il Covid ha influito psicologicamente su persone giovani, adolescenti e bambini? Come li vedi ora?

Sicuramente le più piccole hanno una gran voglia di fare, di esserci, però ci sono anche sporadici casi di persone che hanno detto “Basta”, ma, ripeto, una su trenta. Comunque ributtarti in una comunità, dovendo parlare ed essere empatico, non è facile. Qui non puoi permetterti di restare arrabbiato, puoi arrivare arrabbiato ma quando entri nella comunità che è la tua squadra, devi mettere tutto da parte. E poi chiaramente essendo un gioco di squadra, se un pedina su undici non va, la squadra non va.
Da tre anni lavoriamo anche con una psicologa dello sport, Giuditta, che ci sta aiutando moltissimo, perché appena c’è una ragazza che è in difficoltà gli allenatori la mandano a farci una chiacchierata. Collabora con noi ma anche con altre associazioni e la cosa che sta stupendo anche lei è sentire che ci sono ancora oggi poche strutture come la nostra che hanno una figura di questo tipo che, in realtà, è di enorme aiuto.

Le famiglie sono collaborative?

Non abbiamo per fortuna genitori che si comportano in maniera non consona come spesso capita di vedere nel calcio maschile. Quindi in realtà ci stimano e ci supportano in quello che facciamo e questo ci fa sempre piacere. Abbiamo sicuramente una bella risposta, purtroppo anche con i genitori abbiamo dovuto ridurre i rapporti perché fare le riunioni su Zoom è anche fattibile, ma non è come essere qui mentre la figlia si allena, parlare, stare al bar. C’è un rapporto purtroppo congelato, ma si può creare una bella collaborazione. Quando hai persone ben disposte a farlo è molto più facile.

La speranza è che, come già sta succedendo, le mentalità cambino e anche il calcio femminile diventi una cosa del tutto normale.

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