di Roberta Osculati, Vicepresidente Consiglio comunale di Milano
Il 2 giugno festeggiamo la nascita della Repubblica italiana: il giorno in cui, nel lontano 1946, il popolo italiano scelse la forma repubblicana anziché la monarchia e si cominciò a costruire un futuro di democrazia. Allora i Padri e le Madri costituenti scrissero la Carta costituzionale, che sta alla base di tutto il sistema istituzionale e del processo legislativo del nostro Paese. Essa definisce i principi fondamentali della repubblica, i diritti e i doveri dei cittadini e specifica il quadro organizzativo generale, sia dal punto di vista politico che amministrativo, garantendo un necessario equilibrio tra il sistema di pesi e contrappesi che reggono la vita democratica: la divisione dei poteri, il rapporto dialettico tra maggioranza e minoranza e la presenza di organi terzi, come il presidente della Repubblica.
In questo quadro, il Parlamento è interprete della “sovranità popolare”, ovvero si impone come luogo di mediazione, confronto e dibattito – attraverso la parola e l’ascolto – tra le diverse componenti politiche, rappresentative a loro volta delle diverse espressioni sociali del Paese e, dunque, portatrici di pensieri e visioni differenti che, attraverso il dibattito istituzionale, elaborano una sintesi e una proposta politica capaci di realizzare il bene comune.
Purtroppo, negli anni, questo processo di mediazione è stato spesso sostituito e semplificato da un procedimento di disintermediazione: cioè si è scelto di annullare il passaggio del confronto per promuovere la strada della “democrazia diretta”, che appare più agile, veloce e immediata, cancellando passaggi che possono sembrare lenti e faticosi, quali appunto quelli imposti dal dibattito e dal confronto politico tra diversi.
Uno dei casi più recenti di questo percorso è stata l’approvazione dell’ultima Legge di bilancio, per la quale il Governo aveva chiesto ai gruppi di maggioranza di non presentare emendamenti per velocizzarne l’iter di approvazione e limitarne le modifiche. Ma così si è scelto di esautorare il Parlamento dalla propria peculiare funzione legislativa, limitando la sua azione alla mera approvazione di quanto deciso dal Governo. Mentre dovrebbe essere il Governo che risponde del suo operato al Parlamento!
Un passo alla volta, ci si sta così incamminando verso la riforma costituzionale che prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, sbandierata come la soluzione perfetta per garantire «il rafforzamento della stabilità del governo», mentre in realtà prevede una trasformazione molto profonda della natura e del funzionamento delle istituzioni politiche della Repubblica e concentra tutto il potere nelle mani di un uomo solo (o una donna sola) al comando: il premier. Basti pensare al fatto che il ruolo e la figura del Presidente della Repubblica vengono di fatto sterilizzati.
Che alcuni aspetti del sistema parlamentare vadano rivisti è pur vero. Ci aveva provato senza successo Matteo Renzi nel 2018 proponendo l’abolizione di una delle due Camere. Probabilmente non era la strada giusta.
Certo è che, in questa stagione, serve particolare attenzione e vigilanza per non cadere in tranelli presentati come efficaci ed efficienti scorciatoie, che invece potrebbero ridurre la nostra libertà. Non perdiamo di vista la Costituzione.
Nel 1946 l’Italia non ebbe una facile ripartenza. L’esito referendario, allora, aveva diviso il Paese in due: la vittoria della Repubblica aveva uno scarto di solo due milioni di voti e c’era il rischio di una spaccatura tra il nord e il sud. Ma proprio la Costituzione gettò i presupposti per unire il Paese e avviare una coesione sociale su nuove basi democratiche.
Come cittadini abbiamo ancora diritto di parola, per evitare di vedere compromessi i nostri diritti: ci resta la possibilità di esprimerci attraverso il voto. Impegniamoci allora per invertire la rotta dell’astensionismo e riappropriarci di questo diritto!