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La “democrazia del villaggio”

di Franco Capone – Osservatorio per la Democrazia di Casa Crescenzago


I Borana sono un gruppo etnico di 600 mila persone, dedite per lo più alla pastorizia, a cavallo fra l’Etiopia e il Kenia, in un territorio grande un terzo dell’Italia, dove vivono in autonomia. Gli antropologi definiscono la loro società “assembleare”. Cosa significa?

Non esistono, nelle zone da loro amministrate, capi e governi locali: tutto si decide in assemblee partecipate che si svolgono all’ombra delle acacie. Queste assemblee possono durare anche diversi giorni, dato che per i Borana non è sufficiente che si formi una maggioranza, occorre ottenere il consenso. La differenza fra “maggioranza” e “consenso” è importante: i Borana hanno interiorizzato che una maggioranza che vince ai voti su una minoranza può lasciare scontento e sentimenti di rivalsa: Il voto divide, il consenso invece unisce. Il consenso pacifica.

Anni fa, chiesi al direttore della rivista Focus di mandarmi in Etiopia per assistere a un paio di queste straordinarie assemblee. Avevo già avuto modo di presenziare in altre occasioni alle riunioni degli Indio Pieroa dell’Amazzonia, dei Pigmei Bambuti del Congo e dei cacciatori raccoglitori Hadzabe della Tanzania. Tutte comunità senza capi e in cui l’assemblea regnava sovrana. Vedendo anche come si comportavano i Borana, ebbi la conferma di quanto sosteneva il filosofo ed economista indiano Amarthya Sen, premio Nobel per l’economia, secondo cui la democrazia non è una esclusiva dell’Occidente. Il sistema assembleare tradizionale è molto più antico della stessa democrazia ateniese, che noi generalmente richiamiamo come modello originale. Se troviamo già le assemblee nei cacciatori raccoglitori, come Pigmei e Hadzabe, significa che queste hanno una storia lunga decine di migliaia d’anni. Finché la scoperta dell’agricoltura e la stratificazione sociale, sovrani, caste di sacerdoti e di guerrieri, iniziarono a comportare la concentrazione del potere. In questo quadro storico-antropologico, la democrazia partecipativa appare come un comportamento universale a cui siamo predisposti avendolo praticato per migliaia di anni. Sta poi alle società odierne farlo esprimere o limitarlo con i propri condizionamenti “culturali”. Nonostante i pastori Borana siano molte migliaia e abbiano il senso della proprietà privata, sono riusciti a preservare la partecipazione egualitaria e diretta nelle loro assemblee.

Molti in Occidente identificano la democrazia con il diritto di voto e libere elezioni. Vero, ma non è tutto. Samarthya Sen mette al primo posto la partecipazione al dibattito pubblico. Senza partecipazione e una corretta conoscenza dei fatti il voto e la democrazia rappresentativa non sono sufficienti. I Borana, nella loro semplicità, non hanno una visione “mediatica” della realtà, e quindi anche falsificabile, ma una conoscenza di “prima mano”. Discutono su tutto, in modo “normale”, vale a dire limitando al minimo polemiche e conflitti. Poi decidono collettivamente.

Ma che cosa c’entrano i Borana con il quartiere Crescenzago-Adriano di cui si occupa questo giornale? Insomma, se ammettiamo con Amarthya Sen, e gli antropologi che studiano società tradizionali, che esiste una “democrazia del villaggio”, basata sulla partecipazione diretta mediante assemblee, si potrebbe provare ad applicarla nello spazio cittadino di un quartiere milanese. Se ci lamentiamo che troppe volte la democrazia rappresentativa dei Municipi e del Comune non dimostra di avere il polso dei bisogni dei cittadini, e che le assemblee rappresentative (consigli municipali e comunali) non fanno che riproporre schieramenti precostituiti dai vertici partitici e con idee preconcette, forse si potrebbe dare vita a un sistema assembleare alla Borana. Funzionerebbe?

A Casa Crescenzago abbiamo pensato di approfondire il tema, avviando il Laboratorio sulla Democrazia Diretta. Ci siamo per esempio rivolti a Marco Bassi, antropologo dell’African Studies Center dell’Università di Oxford, che ha studiato per molti anni i Borana sul campo. “Presso di loro l’assemblea non è concepita per essere terreno di scontro fra tesi avverse e pre confezionate – spiega Bassi – Non ha un andamento verticale, dove si approvano idee che vengono dall’alto, ma orizzontale perché deve avere vita propria. In essa il pensiero condiviso si forma in maniera bidirezionale fra bisogni e opinioni dei singoli e sforzo unitario, fino a una sintesi in cui si riconoscano tutti i partecipanti, o quasi tutti. Esistono anche fra i Borana figure carismatiche, ma non leader che vogliono fare passare a tutti i costi le loro idee”. Sono più spesso i “facilitatori” del dibattito: descrivono il tema in oggetto, garantiscono le regole della discussione, ne ricapitolano i progressi, invitano tutti a parlare e a essere flessibili. Un facilitatore, data la sua autorevolezza, evita opinioni personali per non influenzare gli altri, dato che dev’essere l’assemblea nel suo insieme a formare l’analisi del problema e a trovare soluzioni”.

I vari oratori si susseguono usando parole di cortesia per non suscitare risentimento in chi è di parere diverso. Si parla sempre guardando in faccia i presenti, cercando di non dilungarsi in inutili dettagli. Si criticano i fatti, quasi mai le persone”. È assolutamente vietato alzare la voce o comunque esprimersi in modo aggressivo. “Se ciò avviene – continua l’antropologo – se viene rotta l’armonia di un confronto ragionato, la persona più anziana inizia a piangere, in un drammatico rituale. Chi cambia idea non viene visto come un debole. Ci sono assemblee di villaggio, di pascolo, di gestione dei pozzi, di clan fino a quella generale di tutti i Borana. Replicare il modello da noi?

“Funziona bene nei luoghi di origine – afferma Bassi – perché i valori tradizionali sono accettati da tutti e si parla dell’uso di cose e ambienti comuni . Nella complessità delle nostre società moderne gli interessi sono vari e i valori non sono sempre condivisi”. Se ci limitiamo però alle realtà di quartiere, a temi come il verde, la qualità dell’aria, la salute e l’uso degli spazi pubblici, sarebbe più facile riunirsi intorno a valori condivisi da tutti per vedere come realizzarli nel concreto. Occorre solo evitare gli interventi verticali. Come? Istituendo assemblee di cittadini a sviluppo orizzontale. In pratica tutti lavorano per l’assemblea, non per colonizzarla in base al “gruppetto” di appartenenza.

Secondo gli studi comparativi di Stefano Boni, docente di antropologia sociale e politica all’Università di Modena e Reggio Emilia c’è una straordinaria corrispondenza fra movimenti nati spontaneamente in Occidente, come Occupy Wall Street negli Usa o M15 in Spagna e le società egualitarie tradizionali. Anche nel movimento Occupy Wall Street, come fra i Borana, le assemblee potevano dividersi per argomenti o essere plenarie. Tutti erano invitati a intervenire e non erano ammessi interventi aggressivi.

Vietato interrompere, ma erano ammessi e incoraggiati segni di assenso o di dissenso tanto da farne un codice con le mani, parafrasando ironicamente quello della borsa, ma in realtà riproponendo la mimica corporea che permette nelle società assembleari tradizionali di verificare in tempo reale l’avanzamento o meno del consenso. Occupy Wall Street fu sgombrata dalla polizia dopo alcuni mesi di esperienza positiva. Quella protesta era contro l’ordine neoliberista che concentra la ricchezza nelle mani dell’1% di privilegiati mentre il “popolo del 99%” doveva farsi sentire e prendere in mano il futuro.

Nei quartieri milanesi, noi potremmo certamente darci compiti meno “alti”, più alla nostra portata, come difendere gli ultimi fazzoletti di verde contro la cementificazione, combattere l’inquinamento, promuovere servizi, il diritto alla casa e spazi pubblici per la crescita e il benessere dell’abitare.

Il tutto facendo ricorso allo strumento della democrazia diretta. Potremmo cioè fare dell’assemblea dei cittadini un organismo per promuovere cambiamenti. O almeno consultivo per amministratori e consiglieri, delegati con il voto, ma molte volte distanti dai reali bisogni dei quartieri e delle periferie.

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