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Ricky Gianco, “…vi racconto di quando ho mandato al diavolo George Harrison”

Intervista al musicista, compositore e autore di grandi successi come Pregherò e Pugni chiusi.

Ricky Gianco: una colonna della musica italiana dalla fine degli anni ‘50 ad oggi… e oltre. Cantante, chitarrista, compositore e produttore discografico, traduttore di canzoni dall’inglese di genere beat, è considerato uno dei padri del rock in Italia. 

Ha composto centinaia di pezzi, di cui non ricorda neppure il numero esatto ed è quindi una impresa titanica ricostruire tutta la sua storia musicale, perché la sua produzione è intensissima e sfaccettata. 

Quanto all’attività discografica, nel 1973 fonda la Intingo e, l’anno successivo, con Nanni Ricordi, L’ultima spiaggia.

Gli chiediamo di raccontarci quando è nata questa sua passione, anzi vocazione per la musica, che lo ha portato al grande successo.

Raccontaci quando hai cominciato con la musica.

«Fin da piccolo mi piaceva cantare e lo facevo, naturalmente, in casa. Tutta la mia famiglia, vista la mia propensione per la musica, mi sosteneva. Intorno ai cinque anni uno zio mi ha regalato una chitarrina, che però non suonava, e io continuavo a cantare la stessa canzone: “la ultima noche que pasé contigo…”, senza capirne ovviamente il significato. Qualcuno parlava di Conservatorio, mia madre mi sosteneva ma mio padre e mio zio erano per una scelta tipica di quell’epoca e cioè per il diploma, il classico pezzo di carta. Richiamavano sempre l’esempio di un mio zio, professore di oboe, che lavorava in una compagnia di assicurazioni. 

A 11 anni, al mare in Liguria, mi iscrivono a una competizione canora per dilettanti. Vinco il primo premio e questa si può considerare la mia prima apparizione in pubblico, peraltro sofferta, perché prima di andare in scena ho iniziato a piangere. Mi aveva assalito l’angoscia, subito superata.

A 16 anni incido tre 45 giri con la Fonit Cetra. Quando mi portano a Torino per registrare, penso di trovare le grandiose strutture che avevo visto sulle riviste americane. Resto senza parole: per noi c’era un appartamento, la persona che era venuta a prendermi a casa ha indossato un camice bianco trasformandosi in fonico, mentre il microfono stava attaccato al lampadario, il magnetofono (così si chiamava) stava in cucina, e le basi erano due cassettine poste su un mobile. 

Divento chitarrista con un trio, che successivamente si chiamerà Dik Dik, collaboro poi con I Ribelli, con I Quelli, precursori della Premiata Forneria Marconi; nello stesso anno fondo la mia prima band con Luigi Tenco ed Enzo Jannacci, poi una incisione con Gino Paoli, col quale ho stretto una amicizia che dura ancora oggi. Nel 1960 passo alla Ricordi, dove mi trovo con Gaber, Bindi, Paoli e poi Tenco, Endrigo, Jannacci, io ero la mascotte. A quell’epoca pensavo solo al Rock&Roll. Nel 1961, a 18 anni, entro nel Clan Celentano. Tutti i giorni ci si trovava in via Gluck per le prove.

La collaborazione non dura molto per una brusca rottura con Celentano, con cui però sono rimasto amico».

Ricky Gianco - Foto: Davide Lopopolo
Ricky Gianco – Foto: Davide Lopopolo

Nei primi anni settanta la mia rinascita, quando il mondo era cambiato e non tutti se n’erano accorti. Comincio a capire. Non sono più quello di prima.

Però sei l’autore di tanti successi di Celentano.

«È vero, il primo disco pubblicato dal Clan era il mio; ho scritto molti pezzi di successo, tra cui “Ora tu sei rimasta sola…” e anche Pregherò. Questa l’ho incisa io, ma Celentano l’ha voluta per sé, dicendomi che avrei dovuto comporre il seguito, come il secondo tempo di un film, e sarebbe stato il mio successo. Negli anni ’60 ho composto un gran numero di canzoni, tra cui Pugni chiusi, resa famosa da Demetrio Stratos, Vento dell’Est e tante altre».

Hai lavorato con tanti genovesi: parliamo di Fabrizio de André?

«Fabrizio era un uomo di grande cultura, un genio, un grande poeta, un artista vero. Per me si può definire artista il creativo, chi compone; per essere un artista ci vuole un po’ di follia, che è in ciascuno di noi dalla nascita ma che, normalmente, viene contenuta dagli schemi educativi».

Hai avuto contatti anche con i Beatles. Hai anche suonato con loro?

«No, io dovevo fare il primo tempo degli spettacoli che avevano fatto in Italia, ho parlato molto con tutti loro e ho trovato che erano proprio come sono stati descritti in un libro che ho letto da poco.

Lennon era il personaggio più complicato, pensoso su qualsiasi argomento, ironico, anzi sarcastico. Nel gruppo, Mc Cartney era il vero musicista. Sono sicuro che, quando non ci saremo più noi, ma neanche i figli e i nipoti, quando si parlerà di mu­sica del ‘900 si parlerà non dei Beatles ma di Paul Mc Cartney.

L’episodio che mi ha indispettito però, è stato quando, al termine di un incontro, saluto tutti e, mentre sto per uscire, Harrison mi dice in un italiano molto faticoso “ciao… pizza… mozzarella… spaghetti”. 

La mia risposta è stata un “vaffa” immediato e spontaneo. 

Ripensandoci a distanza di tempo, forse voleva solo fare lo spiritoso».

Non solo dischi nella tua carriera ma anche colonne sonore per film, cinema e teatro.

«Sì, oltre alle colonne sonore ho lavorato come attore con registi come Renzo Russo e Salvatore Samperi.

In teatro, al Comunale di Firenze, ho fatto l’orco in Pollicino, opera di Hans W. Henze, autore contemporaneo, con Fedora Barbieri».

Nel 1961, a diciotto anni, entro nel Clan Celentano. Tutti i giorni ci si trovava in via Gluck per le prove. La collaborazione non dura molto per una brusca rottura con Celentano, con cui però sono rimasto molto amico.

Il Rock è sempre stata la tua passione. Ti sei dedicato ad altri generi musicali?

«Facilmente e inevitabilmente al pop. Quelli che mi hanno spinto in quella direzione sono stati gli Everly Brothers e Paul Anka, con quella sua voce singhiozzante e quelle canzoni sempre dolenti, che parlavano di abbandoni, amori finiti, ecc.

A un certo punto mi sono reso conto che scrivevo anch’io canzoni tristi, amori giovani che finivano sempre male e ho smesso di comporre.

Nei primi anni ’70 la mia rinascita, quando il mondo era cambiato e non tutti se ne erano accorti. C’era ancora la guerra del Vietnam, c’erano gli Hippy (i figli dei fiori), gli scontri all’università di Berkeley in California, le canzoni di Bob Dylan, con tutti i movimenti nati da quei drammatici eventi. Comincio a capire. Non sono più quello di prima.

All’epoca della mia scuola non si parlava di politica, in famiglia silenzio totale; ho incominciato a parlarne quando ero alla Ricordi, con Tenco e Endrigo. Andavamo in una osteria (con vino pessimo) e passavamo ore a discutere. In quel periodo è nata Fango».

Parlaci di Fango

«È un inno alla libertà, scritto negli anni ’70, valido anche oggi, se si pensa all’Ucraina».

Parigi con le gambe aperte alla fine degli anni ‘80 con Gino Paoli: un testo un po’ osé per quel tempo?

«Io non amo la piega che ha preso la società; certi termini sono stati sdoganati ma, essendo diffusi, si sono involgariti perdendo il significato e il gusto originari. Quelle della canzone sono parole insostituibili: se fossero purgate perderebbero il loro significato romantico, poetico».

Il tuo cognome è Sanna: come è nato Gianco?

«È stato Celentano a inventarlo. Mi chiama al telefono alle quattro del mattino e mi chiede se mi va bene Ricky Gianco. Io dico sì senza capire di cosa stia parlando, perché mezzo addormentato. Così è nato il mio nuovo nome».

Cosa stai facendo in questo periodo?

«Faccio spettacoli e sto scrivendo tre pezzi nuovi. Mi dicono da più parti che dovrei scrivere un libro, ma mi chiedo a chi possa interessare».

Se pensiamo che questa chiacchierata è stata di grande interesse, e avremmo voluto continuarla per ore, possiamo dedurre che una carrellata che racconti il lavoro, gli incontri, i successi di Ricky Gianco sarebbe molto apprezzato.

Abbiamo detto prima che Ricky Gianco è un pilastro, una parte molto importante della storia della musica leggera dalla fine anni ’50 ai giorni nostri e continuerà ad esserlo, anche se lui, con una modestia rara, tende a sminuire le sue grandi doti di artista. 

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