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«Il mio consiglio è di sognare, sempre»

Incontro con Marco Casentini, artista internazionale con studio a Crescenzago.

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Il primo ricordo artistico?

«Sono i dipinti di van Gogh visti da piccolo. Anzi, nel primo quadro che ho dipinto in tutta la mia vita ho copiato i cipressi di van Gogh, a cui mi lega ancora il rapporto con il colore».

Qual è la migliore ispirazione e quali sono i tuoi maestri, se ne hai avuti?

«Il lavoro dell’artista è guardare agli altri artisti, arricchirsi con quello che è già stato fatto. La mia ispirazione è ciò che vedo camminando per le città, respirandone l’e­stetica. Le città comunicano spesso anche attraverso il colore, i contrasti, la luce… Mi rendo conto che tutto nasce da una memoria visiva data dal posto in cui vivevo, i colori si rifacevano a ciò che vedevo intorno, ecco perché i bruni, i beige, i verdi, le terre, perché a Milano le case sono dipinte di questi colori. Quando sono andato in California sono cambiati completamente i colori, non erano più i beige ma i rosa, gli azzurri, i colori metallici, i verdi… Viaggiando, diventi sempre più consapevole del tuo lavoro, perché poi ritrovi la palette di colori che stavi vivendo in quel momento».

Quindi il viaggio è importante nella formazione di un artista?

«Sì, trovo che viaggiare sia importante proprio per la cultura, anche se non voglio far­ne un discorso assolutista. Non è detto che sia così per tutti, ma il mio immaginario è quello della strada, del viaggio».

Quindi i maestri non ci sono?

No, ci sono. Per esempio sono stato molto influenzato dal lavoro di Mondrian. E, come lui, anch’io sono partito dalla figurazione. Se guardi il periodo figurativo di Mondrian, vedi che disegnava i canali facendo queste righe che poi si sono trasformate nelle geometrie dei suoi ultimi dipinti. Allora lì ho capito la geometria. Quando vivi in una città, quello che vedi non sono nient’altro che geometrie. A La Spezia, per esempio, mi affacciavo dal balcone e vedevo l’orizzonte e la riga del mare, il porto. Durante le passeggiate sul molo, avevo sempre a che fare con questo infinito. La linea dell’orizzonte, il cielo, il mare… sembrano co­se stupide, però ti rimangono nell’inconscio». 

Come vedi il mercato dell’arte negli Stati Uniti, in Europa e in Italia?

«Il mercato dell’arte in Italia è più fantasioso. All’estero invece la correttezza nei confronti dell’artista, del mondo dell’arte è una qualità che hanno tutti i galleristi, mentre in Italia spesso diventa un’eccezione».

Milano è una città in cui si può diventare artisti e vivere d’arte?

«Credo di sì, diciamo che è l’unica città vivibile in Italia. Io vengo dalla provincia, però a Milano ci sto benissimo. Prima avevo intenzione di tornare a vivere negli Stati Uniti, ma mi piace molto come è cambiata Milano negli ultimi anni».

Un consiglio per un giovane che volesse fare l’artista.

«Quello che consiglio ai giovani è di sognare, sognare sempre. Pensare che uno ce la può sempre fare nella vita».

Se non fossi diventato un artista?

«Architetto! Secondo me sono un architetto mancato. E ti dirò di più, due anni fa siamo andati a Berlino e, lungo la strada, vedo l’indicazione “Dessau” (conosciuta nel mondo dell’architettura e del design per aver ospitato la scuola Bauhaus fra il 1929 e il 1932 ndr). Siamo usciti dall’autostrada per andare a vedere il Bauhaus e ho capito per la prima volta come comunque anche l’architettura possa dare delle forti emozioni, quasi più che vedere un’opera d’arte.

Se guardi il mio lavoro cerco di dare emozioni con il colore, la struttura, e l’architettura è un po’ quello». 

Quanto c’è di cosciente in ciò che fai e quanto invece di inconscio?

«Fino ad ora è sempre stato cosciente, anche se non faccio studi iniziali, ma improvviso tutto, perciò credo che la mia sia una geometria molto emozionale. In genere i lavori geometrici sono molto freddi, invece qui c’è molta emozione forse perché è improvvisata. 

Un’altra cosa che secondo me invece mi condiziona molto e che penso sia più avanti rispetto all’arte è il mondo della moda. Spesso ho più sollecitazioni estetiche andando a vedere le vetrine di Valentino, di Dolce & Gabbana. Perché la moda lavora sul quotidiano, su ciò che la gente vuole, sul bisogno. La tela io la uso per esigenze particolari, perché è leggera ma è un materiale antico. Siamo nel 2020, perché non usare materiali nuovi? Questa è un’epoca in cui tutto si sovrappone un po’, la moda, l’arte, la musica. Per esempio, sono stato a Berlino per ricoprire un’Audi; per me non ho fatto un’operazione di design, ho usato semplicemente un diverso supporto che in questo caso è l’automobile».

Se potessi tornare indietro, quale consiglio ti daresti?

Imparare uno strumento musicale. Il sax tenore. Il titolo di una mostra che ho fatto negli Stati Uniti alcuni anni fa era Good Vibrations perché le opere in fondo sono un po’ come degli spartiti musicali, con gli alti i bassi… Diciamo che avrei voluto fare l’architetto suonando il sassofono.

Quale opera d’arte vorresti avere in casa se ne avessi la possibilità?

«La Sacra Conversazione o Pala di San Zaccaria, di Giovanni Bellini che si trova a Venezia, perché è un quadro che mi dà delle forti emozioni ogni volta che lo vado a vedere e poi è costruito con delle curve, dei colori, una delicatezza… non so, vorrei averlo fatto io un quadro del genere». 

La Spezia, Milano, Zona 2, dove ti senti a casa?

«In California, a Hermosa Beach dove ho vissuto. I miei genitori sono emigrati in Svizzera negli anni ’60, io sono cresciuto con mia nonna a La Spezia, perciò ho sempre vissuto un po’ qui e un po’ là. Non ho radici così forti. Anche Los Angeles la sento come la mia città, un po’ come Milano».

Attualmente vivo in via Melchiorre Gioia, ma stiamo seriamente pensando di trasferirci qui dove ho lo studio (tra via Ponte Nuovo e la Martesana). Trovo che in questa zona ci sia tantissima umanità e molta immigrazione, ma un’immigrazione fatta di lavoratori».

Quindi centro o periferia?

«Io trovo che gli artisti abbiano sempre vissuto ai margini, per esempio a New York la zona dell’arte era diventata Chelsea, che ai tempi era la zona dei magazzini, poi sono arrivate le gallerie e oggi Chelsea è diventato un vero e proprio Art District, adesso gli artisti si stanno spostando a Brooklyn e più a sud, a Bushweek».

L’ultima mostra che hai visitato.

«Quella che mi ha colpito di più è stata quella di Nanda Vigo a Palazzo Reale. Una donna che fa lavori molto attuali, usando materiali nuovi».

Approfondiamo; donne e arte, è vero che c’è una sorta di discriminazione?

«Stiamo organizzando una mostra con i nostri studenti di Brera a Francoforte in occasione del cinquantenario del gemellaggio fra le due città. Alla fine mi sono accorto che, nelle segnalazioni che ho fatto, erano tutte donne e quindi è più la parte femminile che sta uscendo, anche se in realtà non mi sono mai posto il problema». 

Se per magia potessi incontrare qualcuno?

Mi piacerebbe passare una giornata con Mies van der Rohe (architetto e designer tedesco ricordato come maestro del Movimento Moderno ndr). A Chicago ci sono questi suoi grattacieli tutti neri, in un certo senso è arte veramente di strada perché ce l’hai di fronte tutti i giorni ed ha una emozionalità, un impatto sul tuo vissuto incredibile, mentre le opere d’arte sono una cosa più intima che trovi nelle chiese. 

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