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«Che bello il “Pirellone” spettinato!»

Incontro con Grazia Varisco, cofondatrice del Gruppo T, artista cinetica e docente all’Accademia di Brera.

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Grazia Varisco è una bella signora nata e cresciuta tra via Oxilia, Greco e Precotto, con studio in via Ferrante Aporti. È stata cofondatrice del Gruppo T nei primi anni Sessanta, docente di Teoria della Percezione all’Accademia di Belle Arti di Brera e protagonista del mondo dell’arte italiana per oltre sessant’anni, senza alcuna intenzione di fermarsi. 

Il suo primo ricordo artistico?

«Risale addirittura al primo periodo di sfollamento, durante la guerra. Avevo disegnato la cucina del posto in cui eravamo, con mia sorella che si arrampicava a sistemare una bottiglia nell’armadio, e ricordo di averlo fatto in bianco e nero perché probabilmente non avevo nemmeno una scatola di matite colorate. Avrò avuto cinque anni, ma non è stata certo la scintilla. Se mai, la sensazione di essere impostata e orientata a fare qualcosa che poteva diventare veramente impegnativo in campo artistico, è venuta molto dopo, direi addirittura in Accademia. Lì mi sono accorta che fare arte richiede una grande disciplina, un’applicazione costante e un modo anche di sentire, di vivere, di comprendere che l’arte ti può anche fagocitare e diventare un interesse esclusivo, come poi è avvenuto nel mio caso. Ma oltre a questo, è necessaria una specie di tensione che avverti come qualcosa di irrinunciabile, nonostante l’impegno e la fatica che richiede.

Nel mio caso poi, mi rendo conto che l’origine del fare è il pensiero che, successivamente, si palesa in ciò che produci, ma a sua volta, ciò che produci genera pensiero, per cui è un rimando continuo, guardi una cosa e, in base a quella cosa, pensi. Avviene nel quotidiano e, ormai da molti anni, mi rendo conto che capita con sempre maggiore frequenza quando avverto che in quel momento mi sento responsabile di essere un artista, ma può anche succedere mentre stai girando il risotto (ride). Ti rendi conto che, intanto che giri il risotto, pensi che quel gesto condiziona il riso a muoversi in un certo modo, ciò genera un pensiero molto più articolato».

Un maestro nel quale si riconosce?

«Non ce n’è uno, ci sono più presenze, che non sono state maestri in senso stretto. Per esempio, in Accademia ho avuto come docente Achille Funi, che è la tradizione più accademica che esista, ma il Gruppo T è nato proprio lì, insieme ai miei compagni con i quali abbiamo fondato il Gruppo (Anceschi, Boriani, Colombo, Devecchi). Ed è stato anche merito di Funi, che probabilmente aveva notato che eravamo gli allievi più “rompiscatole” e, in qualche modo ci coccolava, ci portava nel suo stu­dio anche nel pomeriggio, quando dipingeva per conto suo, in un silenzio che comunque ci trasmetteva qualcosa. Ci lasciava fare anche qualche domanda, lui che era un uomo silenzioso, con la pipa in bocca e le parole molto misurate. Però capivamo che in qualche modo, con noi, forse ha rivissuto il suo periodo futurista, perché noi eravamo interessati a tutto ciò che era dinamico. Anche Guido Ballo è stato molto importante per me, sia come critico che come professore di storia dell’arte e poeta. E anche i miei compagni del Gruppo sono stati in qualche modo di stimolo, come forse lo sono stata io per loro. 

Con Guido Ballo, quando uscivamo da Bre­­ra, si andava, non al bar Giamaica perché era un po’ troppo da pittori (ride), ma da Titta o altri bar nelle vicinanze, ci sedevamo e si chiacchierava e lui, che aveva appena pubblicato il libro sul Futurismo, ci aveva indotto a pensare che il Futurismo si è sempre manifestato come qualcosa che suggerisce il movimento, rappresenta il movimento, ma non è il movimento. Noi invece volevamo “il movimento” che, nel mio caso, ho messo in atto con le tavole magnetiche. Spostando gli elementi che le compongono, avverto il “tempo”, perché nello spostamento, c’è lo spazio e il tempo: un prima, un dopo, un durante».

Quindi nel Gruppo T, la T rappresenta il Tempo?

«Sì, il rapporto spazio-tempo è proprio quello che sta alla base della nostra ricerca. Però lo spazio in un certo senso è già compreso nell’arte, è una delle dimensioni, invece il tempo diventa una dimensione aggiunta. È stato un periodo molto bello, partecipammo alla prima mostra della Olivetti (1962), primo gruppo della mostra dell’arte programmata in Galleria Vittorio Emanuele, insieme a Bruno Munari e Enzo Mari.  

Però per tornare alla domanda sulle influenze, ci fu anche un altro docente, Enrico Bordoni, con cui capivo che c’era una specie di affinità, come pure con Mauro Reggiani, che era un astrattista, e anche Bruno Munari, che nel frattempo era diventato nostro amico. 

Riguardo alla critica, quella illuminata ci ha guardato con un certo interesse, visto anche il successo della mostra, però c’era anche una critica più “vecchia”, istituzionale, per la quale eravamo quelli delle “macchinette”. Devo dire che, in effetti, non abbiamo avuto un critico come è stato Germano Celant per l’arte povera, o Achille Bonito Oliva con la transavanguardia, che abbia lavorato su di noi con la stessa intensità che veniva rivolta alle altre tendenze, ma ce l’abbiamo in qualche modo fatta, e il risultato è che tutti quanti oggi guardano a ciò che ho fatto, ma sanno sì e no quello che sto facendo, cosa che mi dà molto fastidio, perché in fondo io sono viva e nelle mie note biografiche c’è scritto: vive e lavora a Milano (ride). Dico questo perché mi sembra che l’epigonismo che molti mettono in atto quando hanno trovato la loro strada, anche nel nostro campo, non sia un fattore di crescita. Trovano una formula e su quella ci campano.

Insomma, per me la poesia, che non è la poesia scritta, è una poesia che è nell’aria e ti sprona e ti suggerisce di guardare le cose con una visuale diversa, che non è contingente, non è su quella cosa particolare, ma la senti nell’aria, non ha bisogno delle rime. Io che sono una che scrive come un ossesso, non cerco la rima, ma cerco di mettere anche in parole il mio fare artistico, ma spesso mi accorgo di sbagliare e non riuscire a fare ciò che vorrei. Io vorrei trasmettere la poesia del piacere, dello stato di grazia che si acquista quando si vedono le cose con una diversa sensibilità».

Com’era per lei, unica donna, convivere nel Gruppo T con quattro maschi?

«Al momento non sono stata lì a pensarci. Certo sono stata io a dire: “Ma perché io non ci sono in questa prima mostra del Gruppo T?”. Eravamo sempre insieme, e loro improvvisamente fanno questa mostra, e io sono sempre lì, anche ad allestire. Ma in fondo era il maschilismo scontato dell’epoca che gli faceva pensare che io non avessi a che fare con loro, fino a che De Vecchi disse: “Sì, perché no?”. E così, sono entrata nella mostra in modo quasi automatico e naturale. Anche se comunque non l’ho vissuta come una cosa da rivendicare. Certo, non è sempre stato facile convivere all’interno del gruppo, malgrado, specialmente durante gli allestimenti, vivessimo momenti meravigliosi fatti di divertimento e tensione». 

Lei ha insegnato e fatto arte. C’è qualcosa che accomuna queste due attività?

«Ho insegnato Teoria della Percezione a Brera e direi che la Teoria della Percezione nei miei lavori emerge in modo preponderante. Ho passato anche un breve periodo all’Umanitaria per un corso tenuto insieme a uno degli assistenti di Achille Castiglioni, con cui ho lavorato all’allestimento grafico della mostra dedicata alle donne artiste del passato L’altra metà dell’avanguardia (1980).

Comunque ho cominciato a insegnare tardi, nei primi anni ’80, quando avevo già fatto tutte le cose cinetiche, perché, finita l’Accademia, ho avuto la fortuna di lavorare allo studio grafico della Rinascente. Furono sei anni meravigliosi, con tutti gli incontri più fortunati che potessi fare: Bruno Munari, che già conoscevo e che faceva consulenze esterne, Bob Noorda e Augusto Morello (teorico del design e presidente della Triennale per diversi anni) come capo.

Alla luce di tutte queste esperienze, credo che l’insegnamento meriti e chieda di essere fatto con grande impegno e serietà. Quando tornavo a casa dalle lezioni di Teoria della Percezione a Brera, ero stanchissima. Agli studenti invece dicevo: “Non pensiate che intraprendere la strada dell’arte sia una cosa semplice e facile, dovrete affrontarla con grande determinazione e grande fatica”».

Lei ha vissuto la seconda Guerra Mondiale, il dopoguerra, il boom economico… Qual è la differenza, il cambiamento?

«Per esempio, mi ricordo – e lo cito anche in diverse interviste – che nel percorso tra casa mia e Brera, sorgeva il Pirellone, ancora coperto dalle impalcature, e noi dicevamo: “Bello finché è spettinato!”. Era il periodo in cui c’erano moltissime possibilità e sentivi che Milano cambiava, perché il Pirellone saliva, ma lì c’erano ancora le macerie dei bombardamenti. E io delle macerie ho un ricordo importantissimo, che ho rivissuto anche in tempi recenti, perché in via Oxilia, dove abitavo, due case dopo la nostra, è caduto un palazzo, e noi, che eravamo giù in rifugio, l’abbiamo sicuramente avvertito; avevo circa tre anni e ricordo di essere stata riportata su dopo l’allarme, dopo i suoni delle sirene, questi bui, lo scalpiccio, avvolta in una coperta rosa. Ho detestato il rosa per tutta la vita senza rendermene conto e, anche adesso, se lo uso è con ironia. 

Dopo questo bombardamento, per andare da via Sauli, che è parallela a via Oxilia, si camminava sulle macerie della casa caduta e vedevamo piastrelle, tappezzerie a fiori, cose che dovrebbero essere rigorosamente private, esposte invece allo sguardo pubblico, attraverso questo terreno sconnesso che nel frattempo era diventato sentiero, non piano, ma che seguiva i cumuli di macerie e che creava un disequilibrio che ho sentito vivere anche dopo, nel mio percorso artistico».

Milano e l’arte.

«Credo che Milano sia stato un luogo in cui c’è stato modo di fare esperienze che hanno cambiato il volto della città. Il fatto stesso che il Gruppo T sia nato a Milano, invece che a Roma, è indicativo.

Anche se sento di essere molto in difficoltà in questo periodo nel riconoscere e nel riconoscermi nell’ambiente artistico, perché mi rendo conto di essere così estranea allo sviluppo dell’arte contemporanea, che non so bene come guardarla, propone delle cose che ti vien fatto di pensare: è arte, non è arte? Ma sono io che non riesco ad avere un orientamento preciso, ho l’impressione che dietro certi fenomeni ci sia qualcos’altro, che sia il mercato o non so cosa, e rischi di essere disorientato nel capire il significato di alcune operazioni».

Milano è una città in cui anche oggi si può diventare artisti, anche per i giovani?

«Mah, forse è diventato più indifferenziato il fatto di diventare artista qui o altrove. Per esempio Parigi è stato un grande mito, ma oggi non è che uno vada a Parigi a studiare arte. Non la vedo più una condizione legata al luogo. Forse bisognerebbe pensare più ai posti dove l’opportunità è quella di avere un importante contributo, o un aiuto, o anche un interesse, forse Berlino».

Quando abbiamo chiesto a Emilio Isgrò se la pandemia avrebbe comportato un cambiamento, o un discrimine fra un certo tipo di arte e un altro, è stato abbastanza scettico. Lei che ne pensa?

«Secondo me ritorna tutto come prima, con in più questa esperienza. Io comunque non mi sono arresa, mi sono messa subito a fare delle cose proprio all’inizio della pandemia. Delle cose un po’ da pazza (ride); con tutti i ritagli di fogli che mi avanzano, ho deciso di fare un bel collage, ma non avevo la colla, allora mi sono inventata di unire tutti i pezzi usando una pinzatrice, facendo una fatica pazzesca. Ho chiamato questi collages “pinzages”. A questo punto allora capisci che quando l’arte ce l’hai come “alimento”, cerchi di tirarlo fuori e di usarlo anche quando sei in difficoltà. Giusto per spiegare che anche quando uno è perplesso sull’andamento dell’arte, quando ci si trova dentro non sa rinunciarci, la usa».

La scuola riapre. Nelle sue mostre con il Gruppo T c’era scritto “Si prega di toccare” ma oggi le regole del distanziamento impongono di non toccare, non toccarsi.

«Il coinvolgimento del pubblico in ciò che facevamo era importantissimo! Ma in questo momento sarà dura, sarà molto dura dover sopportare la mancanza di contatti fisici. 

All’inizio di questa pandemia ero molto perplessa e pensavo che l’uomo cambia, supererà questa situazione e troverà il modo di vedere diversamente questa cosa. Non so se con delle opportunità o meno, quello è difficile da prevedere, ma un cambiamento ci sarà, specialmente nella mentalità».

Se potesse, che opera d’arte vorrebbe avere tutta per sé?

«Non saprei, anche perché mi succede spesso, col cinema per esempio, di rivedere cose con gli occhi di adesso, accorgendomi che si cambia, che io sono cambiata, che arrivo a vedere con un occhio diverso le cose che ho visto tempo prima. Però se devo dire, forse andrei sulla Resurrezione di Piero della Francesca».

È strano, ogni volta che facciamo questa domanda agli artisti, difficilmente citano qualcosa di contemporaneo…

«Perché, secondo me, è come se ci fosse dentro la nostalgia di opere che potevano essere apprezzate per ciò che rappresentavano e che adesso non c’è più. In fondo se ci fosse oggi un Piero della Francesca non se lo penserebbe nessuno. Per cui noi cambiamo e il giudizio cambia».

L’ultimo libro che ha letto e l’ultima mostra che ha visto.

«Dunque, l’ultimo libro è una rilettura di Moby Dick, che ho trovato stupendo perché si avverte ancora una tensione incredibile, mentre il penultimo è L’assassinio del commendatore di Murakami Haruki, una specie di giallo, anche se non sono molto portata verso il genere, scritto in un modo molto moderno. Bellissimo.

Riguardo all’ultima mostra, devo dire che non c’è nulla che mi sia rimasto particolarmente impresso. Vuol dire probabilmente che ormai faccio fatica a trovare qualcosa che mi coinvolga davvero. Per esempio, mi piacerebbe andare a vedere l’installazione d’arte pubblica di Maurizio Nannucci a CityLife, ma anche perché c’è un rapporto di solidarietà, di vicinanza, di scambio».

Se non fosse diventata un’artista?

«Questo lo so e sono contenta di dirlo. Mi sarebbe piaciuto fare l’imbianchino! (ride). Ma sa perché? Perché io ho rinunciato a dipingere, ormai mi sento tagliata fuori, è una cosa che non mi riguarda più, però provo una nostalgia pazzesca quando posso incollare i fogli per farli diventare il supporto dei miei lavori, vedere che la colla che uso, che è meravigliosa perché la devi preparare a freddo e aspettare che sia pronta, mi permette di fare questa pennellata così ampia alla Franz Klein, che io adoro, e vedere che da lucida, mano a mano che asciuga, diventa invisibile, per me è un piacere fisico. Ed è un piacere vedere che c’è un tempo di mezzo per lasciarla asciugare fino a che non sparisce. Tanto è vero che quando mi imbatto negli attacchini che incollano i manifesti in metropolitana, per me è il massimo!».

Se per magia potesse incontrare una persona di qualsiasi epoca?

«Non è uno. Sono tutti i miei amici artisti. Anche quelli che ho conosciuto dopo, ma tutti insieme».

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