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Un angolo di Tibet in zona 2

Quattro chiacchiere con Giovanna Giorgetti vicepresidente dell’Istituto Studi di Buddismo Tibetano di via Euclide.

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Niente farebbe supporre che in una villetta di via Euclide a Villa San Giovanni, si trovi uno fra i più importanti centri buddisti europei. È l’Istituto Studi di Buddismo Tibetano Ghe Pel Ling, attivo dal 1978 sotto la guida del Dalai Lama Tenzin Gyatso e di cui attualmente è direttore e guida spirituale Thamthog Rinpoche, abate del monastero di Namgyal. Per saperne qualcosa in più, abbiamo parlato con Giovanna Giorgietti, attuale vicepresidente dell’istituto.

Al di là delle mode, cos’è realmente il buddismo?

«Il buddismo è una religione, una filosofia e anche una scienza. Tutte le cose insieme.

L’aspetto scientifico riguarda la descrizione che il buddismo dà della realtà ed è oggetto di confronto annuale – attraverso il progetto Mind & Life – tra il Dalai Lama e gli scienziati di tutto il mondo.

Poi è anche una filosofia, proprio perché riguarda la nostra mente. Il buddismo è molto legato a una logica di causa-effetto. La mente nel suo continuo è superiore all’essere di una vita e assume diverse forme e aspetti fisici a seconda della sua storia (Concetto di impermanenza ndr).

E poi c’è l’aspetto religioso, anche se il buddismo non è una religione trascendente, nel senso che non c’è un dio».

Sembra una religione complicata

«È vero, ma è anche una delle caratteristiche della mancanza di assoluto nel buddismo. La ragione per cui Buddha ha dato questi tre insegnamenti, non era quella di affermare una filosofia o una verità rivelata, ma di fornire piuttosto un percorso per liberarsi dalla sofferenza.

Nel buddismo Mahayana c’è una tradizione basata sullo studio della mente, sulla logica. Lo Zen invece segue una strada secondo cui la mente concettuale è un ostacolo.

L’obiettivo è lo stesso, le strade sono più lunghe, più corte, diverse. Proprio per questo nel buddismo non si fa proselitismo, perché l’obiettivo è aiutare la persona, non indottrinarla».

Quale forma di buddismo praticate?

«Il buddismo che pratichiamo noi Mahayana, non mira solo a percorrere un sentiero per ottenere la liberazione individuale, ma incoraggia ad aiutare gli altri, perché siamo tutti correlati.

La pratica del “sentiero” intende sviluppare due aspetti: uno viene chiamato “metodo” e riguarda lo sviluppo della compassione e dell’amorevole gentilezza, ma anche della sua attitudine mentale, l’altro riguarda la saggezza, che è l’analisi della realtà ultima dei fenomeni. Sono due cose che vanno in parallelo perché bisogna essere buoni ma anche saggi e viceversa.

In occidente, e lo dico col beneficio d’inventario, abbiamo una parte razionale molto sviluppata accompagnata a una fede piuttosto dogmatica, mentre invece il buddismo sarebbe molto più adatto alla nostra mentalità scientifica. La cosa interessante è che questi due mondi si stanno incontrando».

Infatti Einstein diceva che se c’è una religione che potrebbe rispondere ai bisogni della scienza moderna, questa è il buddismo.

«Esatto».

Il Mahayana è la forma più antica?

No, sono tutte più o meno analoghe, perché Buddha, quando si è illuminato, ha dato tre grandi insegnamenti accettati da tutte le correnti. (La dottrina della sofferenza, dell’impermanenza e dell’assenza di un io eterno. Ndr).

La differenza è nel percorso, quindi nel tenere in maggiore considerazione un aspetto degli insegnamenti invece che un altro».

Quando è perché nasce Ghe Pel Ling?

«È una storia che ha a che fare con gli hippies italiani nei primi anni ‘70. Quando i maestri buddisti fuggirono dal Tibet per l’invasione cinese, la maggior parte trovò rifugio in India. Quindi questi giovani italiani che da Goa risalivano l’India, hanno cominciato a incontrare i maestri tibetani. Alcuni li hanno invitati in Italia, creando i primi istituti buddisti, a cominciare da Pomaia in Toscana e, alla fine degli anni ’70, il Ghe Pel Ling a Milano. Poi negli anni ’80 tutti i centri buddisti si sono associati costituendo l’Unione Buddista Italiana che nel 2012 è stata riconosciuta religione ufficiale dallo Stato italiano».

Quanti associati avete?

Siamo intorno ai 400, però alcuni vengono solo per lo yoga o il thai chi, i frequentatori abituali sono circa 150/200, che aumentano durante i ritiri, e provengono sia dalla città che dall’estero, Svizzera, Giappone…»

L’età media dei vostri adepti e il sesso.

C’è una prevalenza di donne, ma è una cosa che vedo anche in altre tradizioni. Riguardo all’età, in media sono sopra i cinquant’anni, ma c’è una tendenza in aumento fra i giovani».

Il nirvana, ovvero lo stato di beatitudine in cui vengono superate sofferenze e ignoranza, cos’è?

«È uno stato mentale. In parole povere, la sofferenza cos’è? Quando parlo di sofferenza fisica, è comunque un fatto mentale. La sofferenza è sempre il risultato di un afflizione mentale, in particolar modo dell’afferrarsi all’ego. È l’importanza che noi diamo all’io che crea la sofferenza».

Parliamo di sofferenza fisica o mentale?

«Tutta, anche quella fisica in realtà è mentale. È sempre dovuta all’interazione che c’è con la mente. E quindi, essendo un fatto mentale, attraverso la conoscenza della realtà vera dei fenomeni e lo sviluppo della compassione, si arriva a uno stato mentale in cui è possibile superare la sofferenza. Quindi vuol dire che la mente ha la possibilità di trascendere il dolore. Perché la mente ha un oggetto di attenzione per volta. Ecco perché facciamo tanta concentrazione. Aumentando la capacità della mente di concentrarsi su un oggetto, di non farsi distrarre, non solo diventa più forte, più potente, più consapevole, ma può anche trascendere il dolore».

Vorrei approfondire il concetto di tolleranza e assenza del peccato, ce ne parla?

«Diciamo che le cosiddette azioni negative, in realtà sono frutto della nostra ignoranza, non del peccato. In realtà ciascuno di noi vorrebbe essere felice e non soffrire, solo che è un’interpretazione sbagliata dovuta all’ignoranza, al fatto che non si tiene conto che dipendiamo gli uni dagli altri. Tutto questo ci porta a considerare che anche i più grossi sbagli sono frutto di una visione errata delle cose, quindi non esiste il peccato. E nemmeno il senso di colpa».

Papa Francesco e il Dalai Lama, cos’hanno in comune?

«La cosa è un po’ complicata, perché nonostante la stima e l’intento reciproco, il papa non ha mai incontrato il Dalai Lama e la ragione ha un nome ben preciso: Cina».

Che tipo di alimentazione hanno i monaci in Tibet?

«In Tibet il pranzo normale è fatto di farina d’orzo tostata, latte, burro e tè tibetano, raramente ci sono i momo, ravioli che possono essere di verdura oppure di carne, ma solo occasionalmente, perché i buddisti non uccidono gli animali, mangiano solo quelli che muoiono naturalmente».

Quindi il buddismo permette di mangiare la carne?

«Sì. Dipende poi dalle tradizioni, ad esempio nella Theravada dell’India, molti sono vegetariani, come anche nel Mahayana qualcuno lo è. Comunque in Tibet è impossibile essere vegetariano perché non c’è la verdura, quindi…».

Sono diciannove anni che segue il buddismo. Com’è cambiata la sua vita?

«Prima non ero interessata alla religione, anzi, poi un giorno, per caso, ho incontrato in metropolitana Thamthog Rinpoche e ho scoperto questo luogo. Col tempo mi sono accorta che faccio le cose sempre meno per farle e in modo più tranquillo. Infatti nello Zen si dice: “Quando mangio mangio”. In realtà quando mangiamo facciamo contemporaneamente altre cose e questo procura da un lato il non vivere il momento, non goderne, e dall’altro stress e stanchezza, perché è la mente più che il corpo che si stanca. C’è un detto che dice: “Se una cosa la puoi risolvere è inutile che ti preoccupi, se non la puoi risolvere, che ti preoccupi a fare?”.

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