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Questi nostri giorni strani

Alcuni artisti amici di Noi Zona 2 raccontano come pensano sarà il loro e il nostro futuro.

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Emilio Isgrò - Foto: Davide Lopopolo
Emilio Isgrò – Foto: Davide Lopopolo

Emilio Isgrò

Barcellona Pozzo di Gotto, 1937. Artista, poeta, regista e drammaturgo è uno dei nomi dell’arte italiana più conosciuto a livello internazionale.

Nell’intervista pubblicata sul numero di dicembre del nostro giornale, ci eravamo lasciati con l’auspicio che la “parola” possa salvare il mondo. Nel frattempo le parole sono cambiate: coronavirus, solidarietà, comunanza, fratellanza. Tutte parole che l’Europa ha ignorato fintantoché l’emergenza sanitaria sembrava dovesse colpire solo l’Italia, mentre nel nostro Paese hanno assunto un significato ben diverso. Crede ancora che le parole da sole possano salvare una comunità europea che appare in così grande difficoltà?

“Non uccidere”. Quali parole sono state più ignorate di queste? Eppure, a forza di sentirsele dire e ripetere da millenni, l’uomo prima di uccidere ci pensa due volte. Come per l’altra prescrizione: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Ma quando mai! Eppure saremmo forse più feroci di quanto siamo se qualcuno non avesse mai pronunciato quelle parole. Insomma Repetita iuvant… E quanto all’Europa, essa è stata fondata dalla cultura, cioè dalle parole, e certamente dispiace che molti europei per egoismo e miopia fingano di non capirlo. Oppure, come temo a questo punto, non lo capiscono veramente. D’altra parte, è vero che le grandi comunità serrano le fila di fronte a un pericolo incombente, come può essere una guerra o un’epidemia di questa portata. Alla fine, a causa del coronavirus, avremo probabilmente un’Europa più forte e più unita. Questo per dire che le parole da sole non bastano, ma senza le parole niente si smuoverebbe. Neppure la nuova Europa che vogliamo costruire. Aperta, pacifica, sicura».

Lei disse anche che un artista deve andare dove c’è più bisogno di lui e, effettivamente, lei è stato molto presente sui media con la sua voce.

«Dire che l’arte è una vocazione al servizio dell’uomo (un po’ come le religioni) di questi tempi suona patetico. Ma evitare di dirlo, magari per quieto vivere, può essere una diserzione da parte degli artisti, una resa incondizionata a logiche che con l’arte hanno poco da spartire».

Si fa un gran parlare del fatto che questa pandemia cambierà il mondo e il nostro modo di vivere. Pensa che sarà davvero così, oppure, passato il pericolo, tutto tornerà come prima?

«Qualcosina cambierà certamente, ma solo qualcosina, e questo è già molto. Perché si può partire da lì per costruire e ricostruire. L’arte è pazienza, e io temo sinceramente le palingenesi troppo annunciate, perché dànno agli opportunisti il tempo di piazzarsi esattamente ai posti di prima, secondo una consuetudine gattopardesca che gli italiani conoscono bene».

E il mondo dell’arte come si sta muovendo? E in quale direzione pensa dovrebbe andare?

«Credo che occorra navigare a vista, giorno per giorno, perché anche per l’arte le leggi non possono che essere quelle del coronavirus. Le leggi del silenzio e della solitudine: è pertanto possibile che, conclusa l’epidemia, anche l’arte glamour si concluderà da sola».

Un auspicio per il futuro?

«Che torni una distinzione più chiara tra arte commerciale e arte di qualità. Distinzione che un tempo era naturale e non offendeva nessuno. Piacere è una cosa, compiacere un’altra».

Vanni Cuoghi. Genova 1966. Artista e docente. Durante la quarantena ha creato 56 acquerelli. Cinquantasei immagini per 56 giorni di lockdown, come ti è venuta questa idea e, soprattutto, pensavi che il tuo progetto si sarebbe protratto così a lungo?

«Quando il 9 marzo, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte disse che saremmo dovuti stare a casa, capii che la nostra generazione sarebbe stata messa davanti a una dura prova. 

La Storia aveva prodotto uno di quegli inciampi con cui ogni tanto l’umanità deve fare i conti. 

Decisi di produrre un documento. Chiamai il mio amico e gallerista Giuseppe Pero e nacque il progetto “Our strange days”: ogni giorno alle 19.30 uscivano sui social un mio acquerello e una frase tratta dalla cronaca o dalla letteratura che lui componeva. 

Ogni giorno il nostro diario si arricchiva di una pagina che Lucrezia, la figlia di Giuseppe, impaginava, traduceva e pubblicava su Instagram. “Our strange days” diventerà un libro-documento». 

Come hai trascorso il tempo, oltre naturalmente a creare un acquarello al giorno? A cosa hai pensato?

«Personalmente non immaginavo che questo periodo di reclusione sarebbe durato così a lungo, ma non mi è pesato farlo. In fondo noi artisti siamo abituati a passare molto tempo da soli.

Le ore erano scandite da ritmi precisi, una nuova normalità, fatta di piccole-grandi cose: l’acquerello quotidiano, le lezioni online per l’Accademia, l’arrivo della spesa a domicilio, sono stati gli eventi che costituivano le mie giornate e poi, lo ammetto, ho fatto la pasta in casa anch’io, specialmente la domenica».

Pensi che finita l’emergenza tutto tornerà come prima, con la solita rincorsa al benessere, i soldi, i feticci che l’economia di mercato vuole imporci ogni giorno, oppure si dovrà pensare a un modo di vita diverso?

«Non so come reagiremo. Tenderemo ovviamente a far sì che tutto torni come prima, ma ho la sensazione che si dovrà essere più attenti e cauti. Cambierà qualcosa solo se saremo costretti a farlo, ma non ho molta fiducia nella presa di coscienza dell’umanità». 

E il mondo dell’arte, fatto di incontri, scambi, viaggi, mostre, come evolverà?

«Il mondo dell’arte e il suo sistema dovranno trovare nuovi modi per comunicare e comunicarsi. C’è stato un proliferare di mostre online che tentavano di sopperire all’impossibilità di… mostrarsi dal vivo. Personalmente lo trovo un palliativo insipido. Staremo a vedere cosa succederà. 

Probabilmente si faranno inaugurazioni con venti persone selezionatissime, i veri acquirenti, gli altri potranno vedere la mostra nei giorni successivi, prenotando. 

Anche per i musei vedo la prenotazione obbligatoria come unica possibilità e un tempo limitato per visitarlo. Non si potrà più sostare davanti alle opere per più di un tot di minuti e questo sarà il vero problema». 

Cosa vorresti tenere e cosa buttare di questa terribile esperienza?

«Di questa esperienza non voglio tenere niente. Non ho bisogno di “ritrovare il tempo” perché non l’ho mai perso. È stato e sarà un danno di grandi proporzioni. Ci riprenderemo obbligatoriamente perché l’umanità fa così, ma a costo di grandi fatiche». 

Mario Gerosa - Foto: Davide Lopopolo
Mario Gerosa – Foto: Davide Lopopolo

Mario Gerosa

Milano, 1963. Giornalista, docente e scrittore. Il collezionista di respiri è il suo ultimo romanzo.

Nel tuo romanzo Il collezionista di respiri, immaginavi il mondo orbitante intorno all’arte giunto a limiti parossistici pur di muovere il mercato, fare soldi. Uno scenario quasi da fantascienza, che la realtà della pandemia ha smascherato. Quali ripercussioni prevedi nel mondo dell’arte?

«Penso che la pandemia abbia raggelato il mondo dell’arte. In questi due mesi di totale accelerazione della virtualità, l’arte, così come altre espressioni dell’ingegno, ha perso forse definitivamente la sua aura romantica e si è irrigidita. Ora appare più distaccata, più lontana, come tutto ciò che ci circonda. L’idea di distanza sociale ormai è un parametro imprescindibile del nostro modo di pensare, tutto viene percepito come schermato, e l’arte non si sottrae a questo nuovo riflesso condizionato. Prima poteva apparire lontana in virtù della sua autorevolezza. Ora l’arte, che nei giorni della quarantena ci ha accompagnato anche sui social con bellissimi esempi creati in diretta, a mio avviso appare chiusa in se stessa, nella sua sofferenza altera. Credo che l’opera che possa interpretare meglio la pandemia è L’Urlo di Munch, un capolavoro che sembra sprigionare degli ultrasuoni che ti penetrano nelle orecchie, con le sue onde di colori che si fanno suoni e con un silenzio assordante che spacca i timpani. Non è un’opera amichevole, è un quadro disturbante, che ti scuote, che non vuol creare empatia, e se la crea lo fa in maniera dirompente. L’arte della pandemia è così. Che si voglia o no, d’ora in poi si dovrà ragionare in termini di pre e post pandemia. In particolare, credo che la vera forma d’arte attuale sia la comunicazione: in questo momento storico tutta la comunicazione si nutre di un’emozionalità forzata e esagerata e si parla molto di giornalismo im­mersivo, un nuovo modo di vivere la notizia in prima persona, sentendosi parte dei fatti grazie alla realtà virtuale. La notizia diventa quasi una performance, o se preferisci un’installazione in cui il lettore è protagonista. E mentre la comunicazione si fa arte e melodramma, si perde il contatto con le opere d’arte classiche, che per due mesi sono rimaste irraggiungibili, da visitare solo nel web. Sono cambiati gli attori di tutta la messa in scena dell’arte, la storia ha creato le premesse di una nuova narrazione, che fa sembrare vecchio e obsoleto tutto quello che è successo prima». 

C’è l’abitudine di affermare che qualsiasi evento cambierà il mondo, che niente sarà più come prima, ma spesso finisce che tutto rientra nella normalità e che ogni esperienza negativa pare non aver insegnato niente. Anzi, spesso il mondo che non dovrebbe tornare come prima, diventa anche peggiore. Che ne pensi?

«Questa volta è difficile che si torni alla “normalità” di prima. La pandemia ha bruciato i tempi di una rivoluzione sociale. Nei due mesi dell’emergenza si sono intensificate le videochiamate, abbiamo imparato a visitare virtualmente musei e gallerie, abbiamo partecipato a conferenze sui social e nei mondi virtuali. È stata comunque un’esperienza formativa e difficilmente sarà accantonata. Ci ha comunque insegnato che è bene tenersi anche un mondo di riserva, un mondo che sta solo in internet. E magari conviene cominciare a comprarsi anche un visore per la realtà virtuale». 

Siamo parte di quella generazione cresciuta a fantascienza e telefilm catastrofisti come a esempio I sopravvissuti, serie inglese del 1975 che sembra aver previsto l’odierna pandemia. Virus sfuggiti a laboratori che scagliano lumanità in un medioevo agricolo. Avresti mai immaginato che, invariabilmente, la realtà superasse la fantasia?

«Sinceramente non l’avrei mai immaginato. È stato un brutto film e avrei preferito non viverlo. Di questo periodo mi rimangono impressi due modi molto diversi di reagire: c’è stato chi ha cercato disperatamente un contatto con il prossimo, cantando sui balconi, e chi invece si è rifugiato in internet, nei mondi virtuali in cui si poteva simulare di andare a zonzo per prati e valli. Tutto questo ha lasciato emergere uno scenario da nuovo Medioevo, che era già latente, un Medioevo che è anche tecnologico». 

Arte e letteratura sono per molti versi gli oracoli moderni, precursori di ciò che realmente prima o poi avverrà. Credi anche tu in questa visione nella quale artisti e scrittori riescono a pre-vedere fenomeni ancora da venire?

«Personalmente prediligo la versione dell’artista e dello scrittore come cronista, come interprete di un fenomeno che ha vissuto. A posteriori, volendo, tante storie possono essere rapportate a ciò che è successo poi, dando una patente di preveggenza. Ma credo che chi racconta e chi guarda tenda sempre a fissare il presente, a essere ispirato o influenzato da quello che vive e che ha sotto gli occhi». 

Come hai passato questo periodo e come pensi che cambierà la tua vita? Ovvero, cosa ti manca della vita precedente e cosa hai scoperto di positivo in questa immobilità forzata?

«Per due mesi sono stato chiuso in casa senza mai uscire, neanche per fare la spesa, e siccome mi piace molto fare due passi, vedere gente, entrare nei negozi, mi è pesato parecchio. Mi è mancata la città, mi sono mancati i suoi suoni, i suoi rumori, le sue facce. Ricordo dei silenzi assordanti, delle immagini terrificanti trasmesse in televisione, immagini che non dimenticherò mai, e ricordo un tempo scandito dai caffè e dai bollettini della Protezione Civile. È stata (parlo al passato sperando che finisca presto) un’esperienza molto difficile. Qualcuno ha detto che era come essere in guerra, ed è proprio così».

Marco Casentini - Foto: Davide Lopopolo
Marco Casentini – Foto: Davide Lopopolo

Marco Casentini

La Spezia, 1961. Artista e docente. Uno degli artisti astratti italiani più rappresentativi della sua generazione.

Nell’intervista pre-covid (che ripubblichiamo in questo numero) affermavi che il viaggio è una tappa molto importante nella formazione di un artista e non solo. Purtroppo sotto questo punto di vista il futuro non è affatto roseo. Come pensi sarà possibile sopperire a questa mancanza così forte?

«Si tornerà sicuramente a viaggiare, sicuramente in modo diverso, ma chi lo faceva prima continuerà anche nella fase post Covid. Le compagnie aeree low cost sicuramente faranno molta più fatica perché devono viaggiare, per mantenere i prezzi bassi, a volo pieno, cosa che sarà impossibile. 

Ma i viaggi si possono fare tranquillamente anche dal divano di casa. Pare che anche Jack Kerouac non avesse mai viaggiato molto, il viaggio per lui era probabilmente uno stato mentale, il raggiungimento poetico di un desiderio. Dunque la poesia, la letteratura, la musica, il cinema, la fotografia e tutte le arti ci aiuteranno a viaggiare come hanno fatto fino a ora. Cosa sono tutte queste manifestazioni se non grandissimi viaggi? “Vola solo chi osa farlo” diceva Sepulveda. E noi ora cercheremo di farlo sempre di più».

E a questo proposito, pensi che ciò porterà un ancora più forte divario fra chi potrà affrontare onerose spese di viaggio e chi non potrà permetterselo? Insomma, torneranno i proletari di un tempo?

«Come ti ho già detto chi ama viaggiare continuerà a farlo, si può viaggiare anche spendendo poco, trent’anni fa, con mia moglie, appena potevamo prendevamo l’auto e viaggiavamo ovunque con pochissimi soldi, anzi soldi contati, dormivamo una notte in auto e una in albergo e poi, fast food o supermercati per mangiare e davanti a noi la felicità di esplorare posti nuovi. E poi la prima permanenza lunga a Los Angeles, una stanza di un motel con uso cucina davanti a una spiaggia e mille dollari da far bastare un mese, comprensivi di benzina per l’auto e tutti gli omogeneizzati e pannolini per mio figlio Matteo. Sicuramente uno dei momenti più belli della mia vita».

Visto che solitamente l’artista è un precorritore dei tempi, come vedi il mondo e l’arte dopo la pandemia? Pensi che tutto tornerà come prima o dovremo, in un modo o nell’altro, rivedere le nostre priorità?

«Temo ci sarà una nuova povertà e con essa tanta cattiveria, non credo che diventeremo tutti più bravi, ma esattamente il contrario. La povertà, la mancanza di denaro, i sogni di beni materiali, saranno la miccia per nuove tensioni sociali, spero tanto di no ma potrebbe accadere. Il conflitto porta violenza, tu parli di proletariato, io credo che non sia mai scomparso dalla società, magari calmierato da un’estetica di finto benessere. Prova ad andare in alcune case popolari di Baggio, Corvetto o anche nella zona dove ho lo studio io a Crescenzago, il proletariato c’è ancora. Ma ci saranno anche cose positive, la mobilità è una di quelle, l’uso della bicicletta e altri mezzi alternativi all’auto prenderanno il sopravvento nella mobilità cittadina. Lo smart working diventerà per molti home working, per tantissimi dipendenti di società la presenza fisica in ufficio non cambia il lavoro quotidiano, così le società risparmieranno nell’acquisto o nell’affitto di grandi edifici e così tutto l’indotto legato alle pause pranzo e colazioni al banco svilupperanno nuovi modi di vendita. Qualche cambiamento si incomincia già a vedere e i gestori con cui ho parlato raccontano di aspetti positivi in questa pandemia».

Come hai passato questi giorni di quarantena?

«A parte il bollettino della Protezione Civile delle 18, le sirene delle ambulanze e il silenzio spettrale per le strade, non ho notato grandi differenze nel mio vivere quotidiano. Ho capito che forse ho sempre vissuto i miei giorni come se fossi in quarantena. Provavo addirittura un po’ di fastidio a uscire per fare la spesa, sarò uscito non più di quattro volte in due mesi, ho continuato a dipingere e a fare le cose che faccio sempre, escludendo le lunghe passeggiate con mia moglie nei fine settimana».

Come pensi che cambieranno, se cambieranno, gli Stati Uniti di cui sei assiduo frequentatore?

«Gli USA alla fine di questa pandemia saranno forse lo stato che avrà avuto più morti e ad oggi ci sono oltre 35 milioni di disoccupati. Sarà lo Stato che si riprenderà più velocemente dalla crisi economica e sociale. Certo, se dovesse continuare a lungo, dovranno mettere l’esercito per le strade: i cittadini americani sono per la maggior parte possessori di armi, il malessere sociale di cui si parlava prima, a queste latitudini potrebbe sfociare in violenza sociale incontrollata. Ma tutto si risolverà presto, ne sono sicuro, questo virus se ne andrà velocemente così come e’ arrivato…».

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