25 C
Milano
venerdì, 11 Luglio 2025
  • Intesa San Paolo SpazioXnoi
HomeIntervisteAmalia Ercoli Finzi, la signora delle stelle

Amalia Ercoli Finzi, la signora delle stelle

Abbiamo avuto il privilegio di incontrare una delle più valenti scienziate italiane, madre di molte missioni esplorative dello spazio

-

Il nostro giornale ha il grande privilegio di ospitare Amalia Ercoli-Finzi, professore emerito del Politecnico di Milano, scienziata di fama mondiale, consulente scientifico della NASA, dell’ASI e dell’ESA. Ha studiato stelle, pianeti e ha progettato missioni nello spazio di eccezionale importanza per la comunità mondiale, quindi per tutti noi e continua a studiare. Ecco cosa ci racconta della sua vita.

Quando hai avvertito la grande passione per le stelle?

«Fin da bambina piccola sono stata appassionata alle stelle. C’era la guerra, eravamo sfollati e tutte le sere dal balconcino della mia stanza guardavo le mie stelle, anche se era inverno e faceva freddo, ma d’inverno il cielo è terso e si vede tutto molto meglio. Ogni sera facevo un gioco: tracciavo un segmento di retta che congiungesse due stelle, saltavo da una stella all’altra, di volta in volta sempre più lontane. E questo è rimasto il motto della mia vita “sempre più lontano”. Sono cresciuta in una famiglia severa, mi sentivo un po’ sola e con le stelle stavo bene. Ancora oggi non perdo occasione per guardarle».

Da bambini abbiamo tutti avuto il momento dei “perché”. Mi pare di capire che le risposte a tanti tuoi perché di bambina sui segreti del cielo le hai trovate da sola. 

«È vero, ho cominciato con i perché, per esempio, perché le stelle brillano e i pianeti no – vedevo Giove – e li ho risolti prima per conto mio, poi incominciando a leggere le Enciclopedie, quella dei Ragazzi quando ero piccola, poi l’Enciclopedia Britannica; quando ho potuto, ho iniziato a studiare, mi sono fatta una cultura perché studiare cose che piacciono apre prospettive. Continuo ancora a studiare perché ora mi sto interessando alla cosmologia, che ha bisogno di un supporto matematico grandioso, però con un po’ di idee si riesce a capire qualcosa».

Quando sei entrata all’università non era previsto che le donne si dedicassero a materie scientifiche se non per insegnare. La tua famiglia ha reagito bene alla tua scelta oppure ha cercato di convincerti a seguire un diverso percorso di studi? 

«La mia famiglia ha reagito malissimo. Aveva già reagito male quando Il professore di matematica delle medie aveva detto a mio padre che avrei dovuto fare il liceo scientifico perché la matematica era una materia in cui riuscivo benissimo. Il professore era un religioso e la mia famiglia, che era molto cattolica, praticante, lo ha ascoltato. I miei avrebbero preferito le magistrali che ritenevano una scuola più adatta a una donna. Io, invece, dopo il liceo, ho annunciato che volevo fare ingegneria. Mio padre mi ha detto subito no, perché non era cosa da donna – e questo me lo sono sentito dire tutta la vita – spingendomi verso la matematica che ben si concilia con la famiglia. Mi ha persino mandato a parlare con un ragazzo, figlio di un suo amico, che faceva ingegneria con grande difficoltà, per scoraggiarmi, ma l’effetto è stato contrario. Più il ragazzo raccontava più io mi convincevo che era la facoltà adatta per me perché faceva capire come funzionavano le cose, la cinetica, la meccanica, l’automobile, l’aereo e altro, insomma il segreto del movimento. A quel punto mio padre è stato costretto a cedere ma mi ha detto: “ricordati, 5 anni !” E io mi sono laureata in 5 anni con 100/100 e la lode mentre i mei compagni allora impiegavano 8/10 anni per prendere la laurea».

Come sei stata accolta al Politecnico, considerato che eri una delle pochissime donne a frequentarlo?

«Quando ho iniziato ho avuto una borsa di studio di 59mila lire al mese, che erano pochissime, ma andava bene così, poi un posto di assistente, perché la figura del ricercatore all’epoca non esisteva. Un professore mi aveva infatti proposto di concorrere per quel posto, suggerendomi di far concorrere anche mio marito – perché nel frattempo mi ero sposata – nel caso in cui mi capitasse di avere difficoltà per eventuali figli! Ovviamente ho concorso da sola e ho vinto. Di qui è iniziata la mia carriera universitaria, sono diventata professore ordinario, che era il massimo raggiungibile, ora sono professore emerito e di più non posso avere. Continuo a collaborare con un gruppo di ricerca al Politecnico dove si fanno molte cose per lo spazio; la mia allieva prediletta, ad esempio, si occupa di satelliti e talvolta lavoriamo insieme».

Ti sei iscritta ad ingegneria aeronautica perché Il corso di laurea in ingegneria aerospaziale non esisteva e sei stata tu a crearlo. Quale è stato il percorso?

«È vero, lo spazio al Politecnico l’ho portato io; ho avuto un colpo di fortuna quando è andato in pensione un professore anziano che teneva un corso di meccanica aerospaziale, ma di spaziale in quel corso c’era solo il nome, inserito per ragioni politiche.  Ha lasciato quindi libero quel corso, che il rettore ha voluto affidare a me. Da allora abbiamo incominciato a parlare di missioni spaziali. Ho iniziato con un esperimento dell’ESA sui fluidi immiscibili, come l’acqua e l’olio che sulla terra restano separati mentre questo non succede nello spazio perché si mescolano e restano mescolati anche quando cadono. Di qui si possono quindi fare delle leghe tra elementi immiscibili che possono avere caratteristiche diverse. Per questo esperimento avevamo lanciato da Kiruna, una base vicina al Polo Nord, un razzo sonda, che faceva un’orbita balistica e scendeva a terra riportando il materiale. Al rientro ho così potuto verificare che il mio esperimento era perfettamente riuscito».

Noi conosciamo molto poco l’universo.  E del nostro sistema solare che cosa sappiamo?

«Non conosciamo quasi niente del nostro sistema solare, che è collocato nella nostra galassia in una posizione limitrofa perché siamo lontani dal centro, io dico che siamo in cantina perché stiamo al disotto del piano equatoriale della galassia e per di più siamo su un ramo secondario, insomma non siamo in una bella posizione. Anche della Terra sappiamo pochissimo, stiamo imparando qualcosa dai satelliti. Della Luna abbiamo l’esperienza della missione Apollo e adesso ci stiamo ritornando. Su Marte prima o poi arriverà un equipaggio. Sugli altri pianeti ogni tanto mandiamo qualche sonda ma, per arrivarci, ci vogliono anni luce e miliardi, miliardi e miliardi di km. Non riusciremo mai a metterci in contatto. Quello che sappiamo è che ci sono tanti pianeti che potrebbero anche essere abitati».

Il nostro pianeta è così bello, ma stiamo facendo di tutto per renderlo invivibile. I nostri discendenti potranno averne un altro che offra condizioni di vita simili alle nostre? Ci possono essere altri esseri intelligenti in altri mondi?

«No, non forme di vita simili alle nostre, ma forme di vita intelligenti sì. Potrebbero essere anche lumaconi con gli occhi verdi, ma che abbiano la facoltà di ragionare. Noi siamo come una goccia d’acqua in un mare e abbiamo un solo universo che stiamo studiando.

Potremmo diventare coloni di un altro sistema solare, ma il problema è metterci in contatto con un’altra civiltà intelligente perché lo spazio di tempo occupato da un’altra civiltà intelligente è qualche migliaio di anni che, rispetto ai 13 miliardi di anni di età dell’universo, è un niente viste le distanze, rappresentate da tanti anni luce».

Missione Rosetta: hai fatto scendere su una cometa – accometare – una sonda dopo 10 anni e mezzo circa di navigazione nello spazio. Ci racconti gli obiettivi della missione, che è stata pensata e realizzata da te? 

«L’idea è stata italiana, accettata con entusiasmo da francesi e tedeschi; avrebbero dovuto partecipare anche gli americani ma si sono ritirati perché l’hanno considerato un progetto troppo difficile. E invece è riuscito. L’obiettivo era ambizioso: non volevamo solo arrivare ad una cometa – l’avevamo già fatto con la cometa di Halley –  ma volevamo arrivarci viaggiando alla sua stessa velocità in modo da poterci mettere nell’orbita e scendere sulla cometa stessa. 

La cometa è come un sassolino, un granellino di sabbia. Abbiamo raggiunto la cometa ma eravamo così lontani dal Sole che non avevamo la corrente per i ricevitori e i trasmettitori. Non sapevamo neanche dove eravamo, così abbiamo ibernato la sonda, abbiamo spento tutto. Quando è arrivato il momento abbiamo cercato di svegliarla. Pensavamo che la sonda fosse in un certo punto dello spazio e abbiamo lanciato il messaggio per quel punto, partito dall’Australia. Avevamo un’ora di tempo per svegliarla, altrimenti avremmo fallito l’obiettivo. Continuavamo a sollecitarla “svegliati, svegliati….”, ma ci ha fatto soffrire, anzi morire, perché si è svegliata dopo 50 interminabili minuti. L’esperimento è però riuscito. Eravamo vicini a Natale del 2014. La missione è durata ancora due anni, 2015/2016, poi è terminata perché la cometa se ne stava andando».

In anni precedenti la missione Giotto ha raggiunto e studiato la cometa di Halley. Ci racconti qualcosa?

«Si chiama così perché Giotto l’ha vista e noi possiamo a nostra volta ammirarla nei dipinti della Cappella degli Scrovegni a Padova proprio come l’ha vista lui col nucleo e con la coda, non con le punte come veniva disegnata nelle immagini religiose. Questa cometa si chiama Halley ma questo signore non è il suo scopritore. Era un amico di Newton che ha pubblicato a sue spese degli scritti di Newton nei quali, con la teoria della gravità, si parlava delle orbite dei corpi celesti. Sosteneva che, se la cometa è un corpo celeste, deve fare la sua orbita, come diceva Newton, e deve anche ritornare. E infatti è ritornata».

Buchi neri: il solo nome produce una sorta di angoscia.  Non si esce dai buchi neri? 

«No, non si esce dai buchi neri. Per quello che si sa adesso, intorno ai buchi neri si forma una zona nella quale vengono catturati i corpi vicini che poi vengono mangiati. Mi piace pensare che questi corpi, quando vengono mangiati dal buco nero, piangono. Noi raccogliamo queste lacrime che arrivano sulla Terra sotto forma di raggi X. Sono raggi che noi riusciamo a raccogliere e rivelare a terra quando una massa viene mangiata dal buco nero. 

Il buco nero ha una gravità enorme, è densissimo; in realtà è come se nella materia fossero spariti gli spazi interatomici. Tra il nucleo dell’atomo e l’elettrone c’è un piccolo spazio; se questo spazio viene meno, la densità diventa altissima. Attorno c’è l’orizzonte degli eventi, barriera tra quello che può circolare attorno al buco nero e quello che viene mangiato dal buco nero.

Abbiamo una teoria che ci dovrebbe dire come è stato il Big Bang. Non sappiamo cosa sia successo perché ci mancano 10 alla meno 32 secondi, vuol dire meno di un miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo. 

Sappiamo che il buco nero per effetto della gravità spaghettizza, riduce un corpo come uno spaghetto. Il buco nero della nostra galassia, la via Lattea, potrebbe essere mangiato, in tempi relativamente brevi per modo di dire, da un altro buco nero o congiungersi con esso. 

Una teoria da premio Nobel dice che il buco nero potrebbe essere la spia, nel nostro universo, di un altro universo che c’è dall’altra parte, cioè la porta per andare oltre. Però, per queste ricerche, ci vuole un’altra fisica». 

Su Marte sono scese molte sonde, ma quando si potrà realizzare una missione che preveda uomini che potranno rientrare poi sulla Terra?   

«Marte per me è una cosa bellissima. L’unico pianeta che i nostri discendenti potranno esplorare sarà proprio Marte, perché Mercurio è troppo vicino al sole, Venere è guastato dall’effetto serra (460° di temperatura a terra) e dalle nubi piove acido cloridrico, la Luna è qui attaccata a noi, Giove è gassoso e gli altri sono ghiacciati.

Su Marte si dovrà scendere in un punto prestabilito per poter convogliare nello stesso posto tutto quello che verrà portato lassù da altre missioni. Tra poco ci vorrà un semaforo su Marte per regolamentare il traffico di tutte le sonde!

Non abbiamo mai trovato tracce di vita su Marte. Doveva partire nel 2022 la missione Exomars, fatta con i Russi, ma con la guerra in Ucraina si è sospeso tutto. Manderemo con gli americani un Rover che cerca su Marte tracce di vita. Magari si trovasse qualcosa, anche di molto piccolo, anche un batterio! Di questo Rover ne sono stati fatti due esemplari perché, se si rompe il primo, il secondo, che tra l’altro costa molto meno, è già pronto per partire. Il primo porta il nome della ricercatrice inglese Rosalind Franklin, che ha scoperto la doppia elica del DNA, mentre il secondo porta il mio nome AMALIA».

Ma c’è anche un asteroide che porta il tuo nome?

Sì, il mio asteroide si chiama Amalia Finzi 8924, è bravo, è lontano dalla terra e non combina disastri!».

Parliamo un momento di Amalia, una donna che è riuscita a creare una grande famiglia con cinque figli continuando col suo lavoro, che prevedeva un gigantesco impegno professionale. Come ci sei riuscita? I modelli organizzativi sono sempre stati maschili e sono cambiati di poco. Hai avuto momenti di crisi in cui pensavi di non riuscire ad andare avanti? 

«Non ho avuto sconforto, ho avuto la paura che non fosse possibile. Pensavo che se non lo aveva mai fatto nessuno forse ero io a sbagliare, perché ho conosciuto tante donne con attività impegnative e tante altre con un numero notevole di figli. Però non avevo mai visto nessuno che avesse messo insieme le due situazioni. Ho avuto il dubbio. Cosa ho fatto? Ho portato in famiglia il metodo che usavo nella ricerca: rigore, pochi ordini ma ineludibili, rispetto per gli altri. Per esempio quando uno dei figli usciva doveva dire con chi, dove andava e a che ora tornava. Inoltre rispetto per le aree comuni che vanno tenute in ordine. E poi il concetto di amore, proprio come per la ricerca che, in realtà, si fa nell’interesse dell’umanità ed è quindi un atto di amore nei confronti di tutti. Questo dà il senso di aver fatto qualcosa di buono». 

Certo, ma ci vuole un marito speciale.

«Le donne che vogliono realizzarsi sul lavoro devono seguire quella che è la mia regola dei tre metalli: salute di ferro, nervi d’acciaio, (perché le donne sono sempre sotto lente di ingrandimento), marito d’oro,  che non è quello che ti lava i piatti ma ti sostiene nei momenti difficili».

Dov’è Dio in questo immenso universo?

«Dio è nel nostro cuore. La fede è una ricchezza, è quella che ti dà la sensazione di non essere sola, aiuta a vivere meglio. Credo che Dio sia buono e cerchi il nostro bene. Tante volte non comprendiamo il perché di certe cose, ma noi siamo la formica che cammina sul tappeto e non riesce a vederne il disegno».

Hai sempre vissuto a Milano. Ti sembra sia a livello delle grandi città europee e mondiali?

«All’inizio degli anni ’50 ho visto Milano con le macerie nella Galleria, era una città distrutta. L’Italia aveva concluso la guerra con una resa incondizionata. Per fortuna ci sono stati i partigiani a riscattarci!

Comunque è una città di grandissimo respiro con una grande storia, che non hanno certe città famose nel mondo. Una curiosità storica: in Duomo c’è un orologio astronomico, una meridiana a camera oscura in ottone, con tutti i segni dello Zodiaco. Il 21 marzo (equinozio di primavera) la luce che entra da un buco nel muro cade sull’Ariete. Volevo farlo vedere ai miei studenti ma, nel frattempo, avevano messo un arazzo antico che copriva la fonte di luce. Ho chiesto di toglierlo e lo hanno tolto. E qui arriva la storia che risale a Napoleone. Quando, a mezzogiorno, arrivava il raggio di luce sull’orologio, si apriva il portone del Duomo, uno sbandieratore dava un segnale con le bandiere e dal Castello si sparava un colpo di cannone. Comunque confermo che la nostra città ha le carte in regola per crescere ancora e diventare una grande città del mondo».

Che dici dell’esperienza televisiva come ospite fissa nella trasmissione di Geppi Cucciari “Splendida Cornice”?

«Mi è piaciuta moltissimo e la rifarei».

La Signora delle Stelle è una splendida ragazza di 88 anni che, oltre ai successi a livello mondiale nel settore aerospaziale, sta anche diventando una stella televisiva.

Interviste recenti

Numero 02-2025

Articoli più letti