Le feste di un tempo nei nostri quartieri

A Natale, dopo la messa di mezzanotte, intorno al tavolo per gustare il “busecchin”

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“Bon dì, bon ann, cosa che dii per cap d’ann? Bon ann, bon dì la bon a man mi!”. Il primo dell’anno bambini e ragazzi di buon mattino giravano di casa in casa per fare gli auguri, simpaticamente ricambiati con un piccolo dono: una monetina, un frutto, un dolcetto. I tempi erano di ristrettezze e tutto era buono.

I più fortunati, poi, ricevevano un’aggiunta se – la notte dell’Epifania – avessero collocato la calzetta sotto il camino, che la buona vecchia avrebbe riempito di noci, spagnolette, caramelle, mandarini, dolcetti, torrone per i più buoni, o con grossi pezzi di carbone per i discoli.

Qualcuno bruciava una vecchia fatta di stoppie in mezzo ai campi: dallo svilupparsi del fuoco e dalle volute di fumo si traevano presagi per la buona o cattiva annata. Altri avevano anticipato il rito alla mezzanotte del 31 dicembre, bruciando nel fantoccio l’anno appena trascorso. A Precotto, come nelle vicine zone rurali, si rimandava il falò alla sera del giorno di Sant’Antonio Abate (17 gennaio), protettore degli animali: la famiglia, dopo aver recitato il rosario nella stalla, si raccoglieva nella corte intorno al fuoco, dove bruciavano le canne secche del granoturco, la melgascia, sorseggiando un bicchiere di vin brulè.

Tuttavia a Precotto, borgo contadino con molti cavalli, mucche, pecore ecc., gli animali venivano condotti per la benedizione davanti alla chiesa il giorno di San Sebastiano (20 gennaio), periodo che segna anche – nonostante i giorni della merla molto prossimi – l’inizio di un certo disgelo climatico (“San Sebastian cont la vioeula in man!”). L’usanza della benedizione, soprattutto dei cavalli, il giorno della festa di San Sebastiano – santo martire molto popolare in Italia e, nel medioevo, invocato spesso a difesa e prevenzione della peste – durò a lungo, fino a tutti gli anni Cinquanta, non venendo trascurata nemmeno quando i cavalli vennero rimpiazzati, come mezzo di trasporto, da auto, cicli e motocicli.

Di prevenire disgrazie e malattie ce n’era un gran bisogno un tempo: a questo scopo a San Biagio (3 febbraio) si usavano portare in chiesa dei ceri, farli benedire, e poi appenderli sopra la testata del letto o dietro la porta d’ingresso; oppure, per prevenire le malattie da raffreddamento, mangiare un pezzetto del panettone avanzato a Natale. Pane benedetto anche per le bestie raccolte in stalla, per prevenire “el taiòn”, ossia l’afta epizootica.

A Carnevale l’importante era mascherarsi, non importa come: e, dati i tempi, i costumi erano fatti prevalentemente di quattro stracci messi addosso. Va osservato che, per tutta la prima metà del Novecento, con l’esplosione di due terribili guerre e della dittatura, per i ceti popolari non c’era molto da stare allegri; per cui i festeggiamenti del Carnevale, in quel periodo, risultarono piuttosto una prerogativa dei ceti borghesi e aristocratici.
La Quaresima è tempo di penitenza e di digiuni, anche se il tempo ormai sembra volgere decisamente al bello (“A San Giusepp se tira via i calzett e tacca su el scaldalett!”) e qualche eccezione era consentita per partecipare alle varie sagre dei comuni vicini.

A San Giuseppe ci si portava a piedi fino in via Padova, alla parrocchia di San Giuseppe dei Morenti, nei cui pressi si svolgeva la sagra, con giostre e baracconi. Altra sagra simile si svolgeva la terza domenica di Quaresima a Crescenzago, e la quarta domenica a Turro. La domenica “di oliv” era consuetudine offrire un ramoscello alla ragazza prediletta, e la Settimana santa era una gara fra chi portava fiori in chiesa per abbellire il Santo Sepolcro.

Il Giovedì si legavano le campane della chiesa e si beveva il vino per “fare buon sangue”, il Sabato le campane venivano slegate e si suonavano le raganelle, o il tric-trac, per annunciare la resurrezione del Signore, mentre a Pasqua la festa esplodeva: in piazza gli ambulanti vendevano dolci di tutti i tipi, nelle case si mangiavano uova sode, focacce, rustiche colombe, castagne lesse, mentre le mamme sfasciavano e liberavano i piedi ai bambini. A pasquetta poi le osterie di Precotto si riempivano dei gitanti fuori porta.
Se il resto dell’anno era prerogativa delle classi rurali, il 1° maggio era la festa principe degli operai, che avevano in via Rucellai, nella cooperativa Primo Maggio la propria base e il proprio emblema.

La giornata si svolgeva come tutte le altre feste in cui era consentito il riposo e i giochi sociali (bocce, carte ecc.), ma nella mattinata era consuetudine il corteo dei lavoratori e qualche discorso d’occasione, che concludeva i riti civili iniziati il 25 aprile con la posa delle corone d’alloro alle lapidi dei partigiani e alle altre vittime della barbarie nazifascista.

In luglio, il 22, c’era una giornata garantita di riposo ed era la festa di Santa Maria Maddalena, festa delle noci (“per santa Maddalena, la nos l’è piena, e per sant’Ana la nos la sa slama!”), ma soprattutto “festa di Peritt”, tipica di Precotto. Intorno alla chiesetta del Cimitero e lungo il rione San Michele, la sera tutto illuminato di lampade al carburo, si svolgeva il Mercato delle piccole pere a basso prezzo. Nelle serate precedenti, presso la chiesa della Maddalena, si svolgeva un triduo di preparazione, molto partecipato dalla popolazione: rosario, litanie, fervorino pronunciato da qualche bravo predicatore venuto da fuori. Poi, il giorno 22, festa della santa, messa solenne in chiesa grande.
“D’agost se pò fà merenda in del bosch!”

Ad agosto il riposo annuale, per chi se lo poteva concedere, significava qualche passeggiata in più lungo i boschi e la brughiera, e soprattutto attività domestiche come lavori di riparazione in casa e simili. Ma per i lavoratori dei campi non c’era tregua: la mietitura, l’assistenza alla vite, il governo delle acque, dei prati, delle bestie imponevano una costante presenza e preoccupazione.

I più giovani, tuttavia, in vena di camminate o con l’ausilio di una buona bicicletta, a ferragosto si portavano fino a Seggiano per la festa della Madonna Nera, oppure a fine agosto, lungo il nuovo terrapieno della ferrovia, andavano fino a Lambrate per la festa della Madonna della Cintura. Gli altri aspettavano il mese di settembre, in cui all’approssimarsi della sagra di san Michele, ci si poteva prendere una settimana di meritato riposo, che i giovani prolungavano portandosi, ai primi di ottobre, a Gorla per la sagra di Santa Teresa del Bambin Gesù.

San Michele (29 settembre) o San Martino (11 novembre) erano feste molto importanti nelle nostre campagne: segnavano l’inizio del nuovo anno agricolo, il rinnovo dei contratti di locazione (in campagna a San Martino, in città a San Michele), o il forzato trasferimento per quegli sfortunati che non erano in grado di pagare l’affitto.

La vigilia del giorno dei morti, in attesa della visita al cimitero del giorno successivo, al calare del sole ci si ritirava in casa e si recitava il Rosario per la redenzione delle anime del purgatorio. Nessuno più s’avventurava in giro per le strade, anche perché era possibile quella notte fare incontri non troppo opportuni, come quello delle anime sante che tornavano a visitare loro case: per tale motivo in ogni famiglia la sera si lasciavano i cibi in tavola e si aveva cura di tenere i recipienti pieni d’acqua per il giusto refrigerio dei morti vaganti.

A dicembre era giunta l’ora di ammazzare il maiale: si chiamava “el mazzù” e con questo professionista iniziava una giornata frenetica: mentre le donne davano una mano scaldando grandissimi pentoloni d’acqua bollente, gli uomini si davan da fare a tagliare e insaccare, ricavando “salam e luganegh, salsicce e sanguinacci”, i bambini giravano tutt’intorno rincorrendosi con i palloncini ricavati dalla vescica della povera bestia. La giornata infine si concludeva con la classica “purscelada”: una gran festa a base di salamelle e polenta accompagnata dal buon vino novello.

La sera della vigilia di Natale la famiglia si riuniva intorno al focolare: il capofamiglia metteva sul fuoco un gran ciocco sopra un ramo di ginepro, poi, fattosi il segno della croce, a scopo propiziatorio alimentava le fiamme con tre spruzzate di vino, quindi dallo stesso fiasco ne beveva qualche sorso e ne offriva ai familiari. Alcuni pezzi del ciocco, infine, venivano conservati per farne fuoco alla nascita dei bachi da seta. Successivamente i più grandi si recavano alla messa di mezzanotte. “Nadal, nadalin, l’è la sera che nass el bambin!” Al ritorno ci si rimetteva intorno al tavolo per dare fondo al sanguinaccio, al “busecchin”, gioia dei grandi e dei bambin!


Dal libro di Ferdy Scala:
Precotto e Villa nel ‘900. Archivio fotografico e memoria storica. 2005