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“Sono libera quando leggo e ‘volo’ nel mio mondo”

Con Romanzo di un’anamnesi la “precottese’ Sara Parziani mette in scena uno spettacolo autobiografico dall’infanzia all’età adulta

di Anna Bresciani

Incontriamo Sara Parziani, un’attrice-autrice di Precotto che in questi giorni sta mettendo in scena il suo spettacolo “Romanzo di un’anamnesi”.

Come sei arrivata al teatro?

Ho sempre “giocato al teatro” fin da piccola poi, nel 2008, mentre frequentavo l’Università a Pavia in Scienze Sociali e Cooperazione, ho visto l’annuncio di un corso di teatro e mi sono iscritta subito. È stato un incontro significativo che mi ha di fatto avviato su una strada che non ho più abbandonato: ho proseguito la formazione in Italia e a Berlino, inizialmente continuando a lavorare per una ONG, fino a che, in seguito ad una esperienza in Mozambico nell’ambito di un progetto di educazione non formale rivolto ai bambini, mi sono resa conto del fatto che quello che mi interessava era appunto continuare a fare teatro. 

I tuoi spettacoli sono scritti da te, come l’ultimo, o reciti anche testi di altri?

Preferisco recitare testi che scrivo io, ho scritto anche per altri, su commissione, ma la cosa non mi soddisfa: non mi piace scrivere e basta e non mi piace recitare e basta. Anche quando faccio delle letture mi piace aggiungere qualcosa di mio; ho lavorato con testi di altri, ma ci ho sempre “scritto in mezzo”, se così si può dire. Lucia Calamaro, una regista drammaturga con cui ho studiato, mi è stata molto di aiuto ed ho trovato il mio stile: ognuno ha un suo immaginario che inevitabilmente mette nei testi che interpreta.

Che tipo di pubblico incontri nei tuoi spettacoli?

Un po’ di tutto, prevalentemente persone adulte, anche se questo specifico spettacolo è adatto anche ai ragazzi, perché è ironico: quest’anno l’ho portato in un liceo, a Roma, ed ha funzionato molto bene, anche perché le tematiche trattate hanno a che vedere con la scuola e la crescita e sono quindi vicine a loro.  

Come interagisci con il tuo pubblico?

Il monologo non prevede che il pubblico partecipi in modo attivo, ma io recitando mi rivolgo direttamente a chi è in sala, spesso faccio domande che restano senza risposta e fungono da stimolo.

A questo punto, raccontaci il tuo spettacolo.

Si intitola “Romanzo di una anamnesi” ed è autobiografico. È nato all’interno del Progetto di cui parlavo prima, con Lucia Calamaro e Graziano Graziani. Il termine “Romanzo” si riferisce al fatto che è un romanzo di formazione, che percorre le tappe dall’infanzia all’età adulta e parla del mio rapporto con la fantasia e con i libri, mentre “Anamnesi” si riferisce al percorso in ambito medico, visto che l’anamnesi è appunto il racconto orale che il paziente fa al medico. Io sono affetta da una malattia rara (la Sindrome di Ehlers-Danlos). Questa sindrome mi porta ad essere più fragile, ma è stata diagnosticata solo in età adulta. 

Ognuno di noi ha dei momenti in cui sente di essere libero e per me ciò accade quando leggo e sono nel mio mondo immaginario: l’origine dello spettacolo è questa, perché ripensando a quante volte, nei momenti difficili, ho fatto ricorso alla lettura, mi sono resa conto dell’importanza che avevano i libri per me. Addirittura, quando da piccola non capivo cosa mi succedeva, mi convincevo di essere anch’io come il personaggio di un libro. Sapere a cosa è dovuta questa fragilità mi ha cambiato la prospettiva. 

Lo spettacolo parla di libertà all’interno di una costrizione, che è una situazione che chiunque può sperimentare.  E poi parla di identità, perché scriverlo è stato un po’ come fare i conti con la diagnosi, che mi era stata fatta poco prima, ed è stato un modo per raccontarmi, cosa che non ero mai riuscita a fare serenamente al di fuori del teatro.

Che tipi di spettacoli ti piacciono?

Mi piacciono le storie raccontate in modo un po’ surreale e ironico, con qualcosa di poetico. Non amo gli spettacoli troppo realistici e nemmeno quelli che sono puro intrattenimento. Uno spettacolo deve lasciarmi qualcosa dentro o suscitare interrogativi e fornire stimoli. Non amo nemmeno i lavori troppo impostati e di pura tecnica. 

E i classici?

Dipende da come sono portati in scena; gli allestimenti tradizionali non mi piacciono perché sono troppo lontani da me, ma le riscritture o gli allestimenti moderni sì, alla fine le tematiche trattate sono sempre le stesse: la vita, la morte, l’amore, i desideri, la paura, i grandi temi sono questi.

Peter Brook diceva “bisognerebbe uscire dal teatro con più speranza di quando si è entrati” e questo può essere un parametro importante per valutare un lavoro.

Hai mai provato ad adattare per il teatro un testo di prosa?

Ho provato ad adattare libri, o singoli brani, a lettura teatrale, ad esempio con “Furore” di Steinbeck che si presta bene; chiaramente il risultato è un testo diverso da quello originale, perché bisogna utilizzare accorgimenti per catturare l’attenzione dello spettatore, in questi casi il ritmo è fondamentale.

Cosa arriva al pubblico in più, o di diverso, in questi casi, rispetto alla lettura del libro?

Arriva qualcosa di diverso perché c’è un intermediario in più: la lettura del libro comporta la fusione dell’immaginario dell’autore e di quello del lettore, se si ascolta una lettura recitata interviene anche l’immaginario di chi recita, che ha anche operato scelte specifiche relative al testo, ad esempio ha deciso di dare più importanza ad una parte piuttosto che a un’altra.

La cosa bella del teatro è l’interazione tra due immaginari: quello di chi recita arriva fino ad un certo punto in cui incontra quello di chi assiste, di modo che lo spettatore coglierà ciò che vorrà cogliere, mediato da ricordi, esperienze e sentire personali. Io non credo tanto nel teatro partecipato, quello in cui il pubblico è coinvolto in prima persona: se c’è bisogno di coinvolgere il pubblico in quel modo è perché l’interazione non funziona.

Ho anche provato a ricavare un monologo, su commissione per un attore, partendo da articoli di giornale relativi ad un fatto di cronaca, l’uccisione di Nicola Tommasoli, avvenuta a Verona nel 2008, è stato un lavoro interessante anche dal punto di vista della ricerca delle fonti.

Come lavori quando fai dei laboratori?

Non ho mai rinnegato l’aspetto sociale della mia formazione, ho seguito diversi corsi di teatro sociale e di comunità e ho realizzato diversi laboratori, sia nel quartiere, sia nelle scuole, legati ad esempio al bullismo, agli stereotipi e anche laboratori sulla legalità o su problematiche ambientali. In questi casi uso il teatro, uso anche un po’ di background accademico, non con la pretesa di formare attori, ma per ragionare insieme su temi specifici. 

In ambito sociale il teatro è utilissimo, serve sia per lavorare con una comunità, sia per crearla, perché lavorando in questo modo si condivide molto.

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Numero 04-2024

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