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Mettiamocelo in testa, la Festa della Repubblica è la festa di tutti gli italiani

Eccoci giunti al 79° anniversario della Repubblica italiana, vigilia di un’ottantesimo bello tondo che la Festa della Liberazione ha appena compiuto, fra le solite polemiche e gli squallidi tentativi di silenziarla con la scusa del lutto nazionale e la raccomandazione di celebrarla “sobriamente”.

Peccato che il governo ignori deliberatamente che i partigiani che ci hanno liberato dal nazi-fascismo appartenevano a ogni schieramento politico, dai cattolici, ai comunisti e perfino i monarchici. Incredibile non voler comprendere che è la festa di tutti gli italiani e, se qualcuno pensa o crede (forse con un po’ di ragione) che sia stata fagocitata dalla sinistra, ebbene scenda in piazza a riappropriarsi della festa di tutti gli italiani. Naturalmente sempre che non rimpianga i manganelli, le leggi razziali, l’olio di ricino e il pensiero unico di una dittatura. In questo caso allora abbia almeno il coraggio di definirsi per ciò che è: fascista.

Forse sta proprio nel non riuscire a dire mai quella semplice parolina, “antifascista”, che sta la cifra di quella gente. Inutile seguitare a provocarli per sentirla uscire dalle loro bocche. Non la pronunceranno mai, perché evidentemente non lo sono. Come si spiegherebbe altrimenti questa frenesia da identificazione da parte delle forze dell’ordine di chi si definisce antifascista e magari lo scrive su uno striscione fuori dal proprio negozio o da chi dal loggione della Scala urla un patriottico: “Viva l’Italia antifascista”? Perché invece i baldi ragazzotti che salutano a braccio teso nel centro delle nostre città o durante le celebrazioni nei cimiteri, difficilmente vengono identificati? “Per tutelare l’ordine pubblico, e non creare tensioni”, risponderanno. Allora dovremmo pensare che chi rispetta l’ordine pubblico debba essere identificato e chi, in barba alle leggi, usa la forza per imporre ridicole sceneggiate no? Ne abbiamo avuto la prova qualche giorno fa, alle “commemorazioni” per Sergio Ramelli, durante le quali qualche centinaio di persone col braccio teso nel saluto fascista ha urlato il classico “presente”, lanciando petardi e insultando chiunque osasse esprimere la propria disapprovazione. Qualcuno di questi neo-squadristi è stato identificato? Naturalmente no. Eppure la Costituzione al punto XII delle disposizioni transitorie e finali parla chiaro: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista…”.

Già, la nostra Costituzione, giudicata fra le più belle, ma anche, purtroppo, disattesa in molte delle parti più importanti come, per esempio, il diritto al lavoro e la sua sicurezza (nel 2024 in Italia sono morti 1090 lavoratori, mentre nel primo trimestre del 2025 i morti sul lavoro sono già 205, con un trend in aumento costante), Art. 1 e 4; o alla salute (Art. 32) uno dei tasti più dolenti di questi ultimi anni, vittima di un lavoro sotterraneo che costringe i cittadini a pagare per avere esami e visite in tempi ragionevoli, o anche l’Articolo 8, che regola i rapporti fra Stato e religione (qualunque essa sia) che devono essere “regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Questo evidentemente non significa che, per esempio, il Ramadan debba diventare una festa nazionale.

Perché come diceva lo storico Ernest Renan in Che cos’è una nazione?, Castelvecchi, 2019, trascrizione di una conferenza tenuta alla Sorbona nel 1882: “Una nazione è un’anima, un principio spirituale. Due cose che, a dire il vero, ne fanno una sola, costituiscono quest’anima, questo principio spirituale. L’una è nel passato, l’altra nel presente. L’una è il possesso in comune di una ricca eredità di ricordi; l’altra è il consenso presente, il desiderio di vivere l’eredità che si è ricevuta indivisa”. E ancora: “Avere comuni glorie nel passato, una volontà comune nel presente; aver fatto grandi cose insieme, volerne fare ancora, ecco le condizioni essenziali per essere un popolo”. E aggiungo io, ecco perché le politiche migratorie sono tutte fallimentari. Non tanto per quel che riguarda l’accoglienza (governi permettendo), ma per ciò che accade dopo, cioè in quella moltitudine di associazioni, enti e fondazioni che spesso sono estremamente carenti verso ciò che dovrebbe essere la vera integrazione sociale degli immigrati, anche di seconda o terza generazione. Se da un lato, non avendo avuto una vera possibilità di integrazione, spesso gli immigrati si riappropriano in modo superficiale della cultura atavica (che a volte fa a pugni con il nostro ordinamento civile) per un senso di spaesamento, rabbia e incapacità di integrarsi in un sistema che in realtà invidiano e scimmiottano, dall’altro esiste chi crede così profondamente e ingenuamente nella propria religione da porla davanti a qualsiasi regola di convivenza fra cittadini o leggi dello Stato. 

Reputo che stia proprio qui l’errore di presunzione di molte parti sociali. Cito Edmondo Berselli da Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica”, Mon­da­dori 2008: “Nel nome della tolleranza non si è obbligati ad accettare comportamenti ripugnanti da parte degli emigrati, giustificando la sporcizia o l’inadeguatezza civica con l’ingiustizia storica che ha privato il Terzo Mondo delle sue ricchezze e ha ridotto in miseria i suoi abitanti”.

Mi sembra proprio questo il punto su cui tutti dobbiamo lavorare. Dare cioè la percezione che tutti fanno parte della nostra nazione, tutti hanno pari diritti, ma anche e soprattutto, pari doveri, e che la nostra Costituzione va benissimo così com’è, basterebbe solo che Stato e cittadini si impegnassero ad applicarla, in modo che chiunque possa sentirsi orgoglioso di essere (o diventare) italiano.

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Numero 02-2025

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