Finalmente siamo riuscite ad incontrarci! L’inseguimento è stato lungo ma proficuo. Nonostante il sole a picco che imperversava in Liguria, Lella Costa è riuscita a ritagliare il tempo per l’intervista, a margine di un suo intervento sul tema “Quando il teatro è donna” organizzato con Serena Sinigaglia da BPER Banca nell’ambito del Premio Rapallo 2024 per la Donna Scrittrice, premio che vede Lella Costa nella giuria.
Il curriculum di questa splendida artista è talmente lungo e importante che ci si chiede se è possibile che possa essere riferito a una persona sola. Per lei, però, non c’è nulla di straordinario perché questa è la vita che ama.
Liceo classico al Carducci, facoltà di Lettere all’Università, poi teatro con Quelli di Grock, la scuola fondata da Maurizio Nichetti. Quando ti sei resa conto che il teatro era la tua vita?
Non è che ho avuto la chiamata. Ai tempi dell’Università volevamo aprire un consultorio popolare di psicoterapia, quindi facevamo un training, parte di questi training erano i colloqui simulati. Una volta è toccato a me interpretare una paziente. Avevo raccontato la storia di una ragazza schizofrenica, non era una storia drammatica, l’ho interpretata e avuto un successo pazzesco. Io non sapevo di avere quella dote e da lì mi è venuta voglia di vedere se poteva essere una vocazione. Infatti, oltre a quelli di Grock, ho fatto poi l’Accademia dei Filodrammatici, dove ho avuto come insegnante Ernesto Calindri. Non sono mai riuscita a dargli del tu anche dopo tanti anni, nonostante lui me lo chiedesse e mi avessero dato il premio Calindri, perché l’ho sempre considerato non un collega ma il mio maestro.
La vera svolta per me è arrivata quando ho cominciato a scrivere i miei testi, ho messo insieme gli studi precedenti, l’Università con la scoperta di quella vocazione. Non è stata comunque la “chiamata” da piccola. Credo che questo sia abbastanza tipico della mia generazione di attori/autori, penso a Paolo Rossi, Marco Paolini, Moni Ovadia. È quella generazione che ha dato un segno molto autorale oltre che interpretativo e un’altra caratteristica che mi accomuna a loro, a cui tengo molto, è stato di scegliere non necessariamente di piacere a tutti ma di portare in scena le cose che mi assomigliassero. questo è un enorme privilegio e un’intuizione fortunata.
Attrice, comica, cabarettista, drammaturga, scrittrice, umorista a e doppiatrice, così sei ufficialmente definita. Sei anche direttrice artistica, con Serena Sinigaglia, del Carcano di Milano, un teatro di mille posti di grande tradizione per i milanesi. Aggiungo anche un forte impegno nel sociale. C’è altro?
Per me è già anche troppo, per esempio: attrice di sicuro, drammaturga ci provo, scrittrice mi imbarazza un po’. Pubblicare i miei testi va bene, ma quando mi è stato chiesto di scrivere libri è stato fatto, diciamo, per sfruttare la mia notorietà acquisita. Gli scrittori sono altro, mi spiace perché ci sono persone che hanno talento più di me ma non riescono neanche a far arrivare un manoscritto a un editore e questo mi dà dolore.
Come sei riuscita e riesci a occuparti di tutto quello di cui abbiamo parlato prima, famiglia compresa?
Bella domanda! A parte che non so proprio se sono riuscita a conciliare, l’unica risposta che posso dare è che mi piacerebbe che questa domanda venisse rivolta a un uomo. Invece non viene neanche in mente di farla perché l’uomo ignora il problema, intanto ci sono mamme, sorelle, mogli che se ne fanno carico.
Parliamo del tuo ultimo spettacolo ”Otello – Di precise parole si vive”, lavoro tuo e di Gabriele Vacis che porti in giro per l’Italia, ispirato alla famosa tragedia di Shakespeare. Il grande drammaturgo aveva già messo a fuoco il problema della relazione tra uomo e donna, così come la viviamo noi adesso?
Io penso sia sempre un po’ arbitrario, Shakespeare è stato probabilmente il più grande autore di tutti i tempi. Dopo di lui è difficile inventarsi cose nuove perché ha veramente esplorato tutto, però attribuirgli o giudicarlo con delle categorie che, comunque, sono venute dopo, secoli dopo, è difficile. Lui era così avanti che ti sconvolge. La cosa di cui vado un po’ fiera è che questo spettacolo ha avuto grande successo, la prossima stagione faremo ancora un sacco di repliche. In realtà questo è uno spettacolo del 2000, l’anno scorso con Vacis ci siamo chiesti perché dobbiamo essere condannati portare in scena solo le novità. E abbiamo avuto ragione, l’abbiamo un po’ modificato, abbiamo aggiunto cose, cambiato la scenografia, arricchito, ma l’impianto drammaturgico è talmente forte che, quando racconti la trama, ti rendi conto che è praticamente una notizia di cronaca di oggi. Desdemona, infatti, è assolutamente innocente ma non si sottrae al suo destino, sa perfettamente cosa succederà ma sceglie di non discolparsi e alla nutrice, che le chiede “come vi sentite” quando viene convocata nella stanza nuziale da Otello, risponde “in verità mezza addormentata”. Cose già sentite, è il torpore che prende quando ti rendi conto che è inutile, che le parole dette hanno distrutto qualunque sentimento. Mi strugge poi l’idea che quest’uomo, Otello, del quale ovviamente non giustifichi la violenza, è comunque un classico paradigma dei femminicidi. E infatti poi si uccide, ma l’ultima cosa che Otello, che ha disperatamente creduto di essere diventato a tutti gli effetti un cittadino di Venezia, dice di sé è: “dite che una volta ad Aleppo Otello vide un turco insolente che batteva un veneziano, lo prese e lo finì con la sua spada”. Quel turco gli assomiglia più di un qualunque veneziano. Queste intuizioni ti emozionano talmente che ti vien voglia di raccontarle dal palcoscenico. È anche la smentita di quando devi fare delle cose nuove, nel senso che uno non le ascolta o non le segue perché sono nuove ma è la narrazione che fa la differenza. Il racconto, e non l’informazione, ti rende padrone della storia. Per rispondere alla domanda è evidente che esiste una patologia tra maschio e femmina, non sempre per fortuna, però pensiamo a quanti equivoci o a quanti conflitti non esplicitati in cui non è che noi donne, in quanto potenziali vittime, siamo prive di responsabilità, ma la disparità c’è. Praticamente le donne fortunate la situazione l’hanno solo sfiorata e la possono raccontare, altre ne portano i segni, altre non hanno più voce.
Prima di Otello hai portato in scena “Le nostre anime di notte” tratto dal romanzo di Kent Haruf: due anziani nella provincia americana riscoprono la confidenza, l’intimità, la bellezza di condividere la vita, ma quella società non riesce a capire questa bellezza e ritiene giusto confinare la terza età in una sorta di limbo. Pensi che anche da noi, soprattutto in provincia, potrebbe accadere la stessa cosa?
È vero che i due protagonisti sono in età avanzata ma quello che mi ha colpito nel momento in cui mi sono innamorata di quel romanzo, è che quella è una storia d’amore. È una versione di Giulietta e Romeo, perché è un amore contrastato e ostacolato dalla famiglia. E infatti lo spettacolo, così come il romanzo, ha incantato i ragazzi, perché quello che prevale è la storia d’amore. Non è che non c’entri l’età, c’entra perché si parla di un bagaglio fatto di esperienze, di legami, di vincoli, ma quello che colpisce è che una storia d’amore cambia la vita. La società sbaglia, ma penso possa contare su quella specie di pudore, di timidezza, del senso di inappropriato che subentra. Al Festival della Letteratura di Mantova ho presentato un libro di una scrittrice americana che racconta la storia di una donna ebrea chassidica osservante che si ritrova incinta a più di 50 anni e addosso le arriva la vergogna sociale. Quindi è lo stigma, di cui sicuramente dobbiamo liberarci. Nella nostra provincia i due protagonisti non verrebbero confinati nel limbo ma, magari, guardati con un certo sospetto sì, ed è molto stupido perché ormai la vita si è allungata e, nella nostra storia, è la donna che lancia la sfida, che viene subito raccolta dall’uomo.
A questo punto parliamo delle donne. Alla luce dei delitti efferati sulle donne che, quasi quotidianamente, ci raggiungono attraverso i media, cosa possiamo dire sull’uguaglianza di genere? e, secondo te, il cosiddetto “soffitto di cristallo” è stato infranto o c’è ancora molto da fare?
Comincio dalla seconda parte della domanda. C’è ancora molto da fare anche perché, e lo dico con rammarico, finalmente abbiamo avuto una donna ai vertici – non era mai successo che in Italia ci fosse una presidente del Consiglio – la quale si rifiuta di usare il femminile e preferisce usare il maschile. Ti dà un senso di scoramento e, infatti, in questo governo ci sono pochissime ministre. Direi che stiamo tornando indietro, quindi credo che il soffitto di cristallo ci sia ancora; se non lo vediamo è perché è stato pulito molto bene. Quanto all’uguaglianza, quello che possiamo dire è che dobbiamo continuare a parlarne, perché non è vero che non serve parlarne. Serve soprattutto alle donne per capire e serve per poter garantire una rete che deve assolutamente essere fatta anche dalle istituzioni. In anni precedenti avevo fatte parte dello spettacolo Ferite a morte con Serena Dandini, quindi ho seguito da vicino tutte le problematiche emerse da quel lavoro. Ci sono un sacco di città, piccole città, in cui si sono veramente impegnate le istituzioni per garantire la formazione delle forze di polizia e gestire quindi il problema. C’è però la grande difficoltà che, per intervenire, occorre la flagranza e le ragazze muoiono lo stesso. È quindi difficile fare la necessaria prevenzione garantendo protezione. Non dobbiamo però smettere di provarci perché non possiamo dimenticare che qualunque violenza sulle donne si riflette in modo altrettanto violento sui figli e su tutta la cerchia famigliare, quindi la vittima non è una ma sono tante.
È vero che recitare è catartico?
Non lo so, il mio pensiero è che sia semplicemente meraviglioso, per me è fonte di gioia assoluta. Ci sono molti miei colleghi che invece patiscono il pubblico, lo vivono in modo quasi conflittuale. Cerco di non dirlo troppo ai mei cari, ma il teatro è per me il posto migliore del mondo. Non sarà un caso che in inglese, in francese e anche in russo si usi lo stesso verbo per dire recitare, suonare, giocare e quindi è la dimensione del gioco. Poi sì, magari è anche catartico però per me è un privilegio incredibile.
I tuoi monologhi sono caratterizzati da un’ironia sferzante. Pensi che l’ironia potrebbe salvare il mondo?
Vorrei fosse mio quello che ha espresso sull’ironia Romain Gary, grandissimo scrittore francese: “l’ironia è una dichiarazione di dignità, un’affermazione della superiorità dell’uomo su ciò che gli capita” ed è anche un modo per nobilitarla. Ironia non è fare le battutine, è anche un modo per cercare di vivere la vita; non ti aiuta a risolvere i problemi ma a vedere le cose in un’altra prospettiva. A volte quello che ci manca è proprio la capacità di spostare lo sguardo dal nostro ombelico, dall’eccessiva autoreferenzialità, provare a guardare diversamente, e se si riesce a sorridere, se non proprio a ridere, cioè a essere consapevoli, è una grande forza. Non credo si possa insegnare, perché uno ce l’ha o non ce l’ha nel DNA, ma contagiare sì. È anche una questione culturale e l’ho visto nelle mie figlie.
Parliamo di Milano, la tua città che ti ha anche riconosciuta come cittadina benemerita con l’Ambrogino d’oro. La percepisci come una città che può porsi al livello delle grandi città europee?
Se non altro ci prova. Sicuramente è l’unica città italiana che può avere questa aspirazione. Quello che, da milanese, mi viene da dire, e mi fa un po’ fatica, è vederla come se ce ne fosse solo una, ma Milano è tante cose e non necessariamente tutte coerenti tra loro. Ci sono cose che mi piacciono molto, a cominciare dal pubblico che va a teatro, non necessariamente a vedere i miei spettacoli. Credo ci stia provando a non restare indietro ma, dicevo prima, con tante contraddizioni però, se in Italia c’è una città che assomiglia all’Europa, è proprio Milano. Lo cantava già Lucio Dalla “Milano vicino all’Europa…” A proposito di Milano, sono molto contenta perché al Teatro Carcano abbiamo fatto le prime due parti della commedia di Carlo Bertolazzi El nost Milan e ora, ai primi di dicembre, faremo la terza parte, però in dialetto milanese. Sono i progetti di Serena Sinigaglia, io lavorerò con anziani, gruppi di cittadini, storie di quartiere, tutta una serie di cose diverse…