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Le origini della dimora rurale lombarda

Esaurita la parte dedicata alle pievi e alle chiese del nostro territorio, andiamo a visitare le case antiche degli abitanti, che, in quanto agricoltori, vivevano per lo più in cascinali ospitanti diverse unità familiari. Vedremo alcune cascine tuttora esistenti e accenneremo a quelle abbattute e sostituite da edilizia contemporanea. Tuttavia anche le cascine scomparse raccontano gli aspetti notevoli della storia locale. Cominciamo con un inquadramento generale.

Acque e marcite

Da sempre il fiume Lambro caratterizza il territorio da Crescenzago a Lambrate, con la compagnia di numerose rogge e fontanili, esito dei numerosi corsi d’acqua che dal nord scendono a bagnare la pianura e la città. Un tempo, l’assenza di sponde solide nella stagione delle piogge, consentiva al fiume numerose esondazioni. L’uomo primitivo di conseguenza non poteva vivere se non in palafitte e in villaggi di abitazioni rustiche ricavate dal folto bosco di Crescenzago. 

In epoca romana si formarono le “villae rusticae”, poi riconvertite in “grange”, grandi aziende agricole, dove in periodo medievale le congregazioni degli Umiliati, dei Cisterciensi, dei Benedettini dissodarono i terreni, canalizzarono i corsi d’acqua, formarono le marcite, ingegnoso sistema agricolo di coltivazione dei terreni, sviluppando l’agricoltura e l’economia domestica dei secoli di mezzo.

Nel frattempo, a metà del ‘400, il duca Francesco Sforza realizzò il Naviglio Martesana sostenuto a questo punto da un “argine grandioso di pietra fino all’altezza di 40 braccia sopra il fondo dell’Adda” (Pietro Verri) e a maggior ragione oggi possiamo concludere che tale sistema di fiumi e canali (Lambro, Martesana, torrente Molgora, Seveso, Acqualunga, roggia Gerenzana ecc.) un tempo caratterizzasse a tal punto la pianura da renderla fertilissima, sviluppando l’economia delle popolazioni rurali del Nord-est cittadino.

Le tipologie d’abitazione

Come ricorda Renata Marotta nel volumetto “Tra pievi, ville e cascine storiche” della Zona 2, «la cascina milanese non è una semplice casa colonica, ma un complesso edilizio legato alla produttività […] I vari cascinali, disposti attorno a uno spazio centrale, chiamato “aia”, formano veri e propri borghi».

L’abitazione contadina, pertanto, utilizzava una concezione costruttiva in muratura, con muri spessi anche 50 centimetri, per sopportare il peso del piano superiore.

La vita comune si svolgeva prevalentemente intorno al camino, accessorio principale e indispensabile del grande e unico locale della cucina posta al piano terra. I mobili erano costituiti da una credenza (o da un canterano o una madia per impastare il pane e conservare la farina) oltre che da un tavolo ampio, con panche o sedie di paglia sufficienti a mettere la numerosa famiglia intorno al desco. La camera da letto (spesso unica per tutta la famiglia, con letto in ferro e cassapanca) stava al piano superiore, cui si accedeva da una scala esterna. Il punto comune per i servizi igienici, costituito da una fossa biologica periodicamente svuotata, stava in un angolo del cortile, accanto alle stalle, dove alloggiava il bestiame (molte vacche, qualche pecora) e dove, utilizzando il tepore della presenza animale, la famiglia passava le serate del lungo inverno recitando il rosario e dedicandosi a lavori domestici. Le stalle, con sopra i fienili, erano disposte lungo un lato del cortile, essendo gli altri lati occupati da un porticato con carri e attrezzi agricoli o dalle officine delle attività complementari all’agricoltura: quella del fabbro ferraio, soprattutto, e del falegname.

La vita dei contadini

Quella dei contadini di un tempo, ivi compresi i braccianti e gli affittuari era una vita di lavoro regolata dalle stagioni e dalle condizioni meteorologiche. Se tra i lavoratori dei campi soggetti al proprietario si volesse stabilire una gerarchia di status e di condizioni economiche, dovremmo iniziare dal fattore, scendere al campiere (campèe) controllore delle acque per l’irrigazione dei campi, proseguire con il fittavolo, colui che aveva la gestione diretta dei terreni, giungere infine al bracciante, l’uomo di fatica a giornata su cui gravava l’onere maggiore del lavoro.

Laddove gli operai facevano 10 ore di lavoro al giorno, i fittavoli e braccianti ne facevano anche 16: iniziavano all’alba e finivano al tramonto.

Era prassi comune, da parte del padrone, introdurre nei contratti di affitto condizioni costrittive, come quella di venire pagati solamente con prodotti della terra se il lavoratore era un bracciante, oppure di obbligare il contadino a lavorare gratis per lui per almeno 3-4 ore la settimana. C’è una storia che si tramanda a questo proposito circa Fanny Ottolenghi, fondatrice del Centro Sanitario-Ortopedico di Gorla: sembra che la proprietaria costringesse i suoi agricoltori a un certo numero di giornate gratuite per la cura esclusiva del giardino della sua villa.

L’affitto, inizialmente, era pagato in natura. Il proprietario “assumeva” il contadino, gli assegnava la casa, la legna, la farina ecc. Tutto il lavoro era a carico del fittavolo, il quale era autorizzato a trattenersi una parte del raccolto. Tale era il “rapporto in natura”: soldi non ne transitavano. Uniche proprietà concesse al fittavolo erano gli animali da cortile, le galline allevate dalle massaie che ne vendevano le uova, o il maiale, ricordandosi però “de portaghe el codeghin al sciür”.

A San Michele (epoca del rinnovo degli affitti per i borghi prossimi alla città) o a San Martino, se cambiava padrone, il fittavolo o il bracciante partiva portandosi dietro i suoi quatro strasc con il carrettino. 

Crescere insieme nel cortile

I portoni delle cascine erano sempre spalancati a causa del passaggio continuo di carri e animali. La gente viveva in casa con le porte sempre aperte: «Mia mamma – ricorda Giuseppe Gavazzi – per uscire a far la spesa tirava la tenda: tutto lì!». Era un altro modo di vivere. Le famiglie della corte trascorrevano le giornate insieme, i figli crescevano insieme, anche se i rispettivi nuclei non erano sempre parenti stretti. I problemi erano comuni: nel cortile si creava una naturale spontanea solidarietà, un rapporto di mutualità che permetteva a tutti e a ciascuno d’essere d’aiuto alla comunità della corte, sia in caso di bisogno per malattie, sia in epoca di eccesso di lavoro per la trebbiatura, la vendemmia ecc. La vita collettiva si rivelava utile nei grandi lavori come nei piccoli delle incombenze domestiche. Poteva essere, d’inverno, una giornata di frenetico lavoro e di festa insieme per l’ammazzamento del maiale o, in gennaio, l’accensione dei fuochi di sant’Antonio. Poteva essere infine una festa di famiglia, un matrimonio, un battesimo, cui il vicinato attraverso il rinfresco veniva chiamato a partecipare.

Il ricordo della vita rusticana ci è tramandato dallo scrittore Luca Sarzi Amadé il quale osserva, con un filo di malinconia, che la vita a Precotto, per esempio, “era andare dal barbiere a piedi scalzi, alle 5, prima del lavoro nei campi; era il viale Monza, le quattro stupende file di platani, e per due pomeriggi alla settimana le donne con la carriola che venivano a piedi da Gorla e da Sesto San Giovanni ad acquistare el pan de mej al forno di Precotto” (Milano fuori di mano, Mursia, 1987).

Fra i tanti esempi famosi (molti ormai scomparsi dal territorio), come le cascine Conti, la Cassina de Pomm, la Fornasetta a Greco, oppure la Cascina Governo Provvisorio a Turro, la Cattabrega a Crescenzago, possiamo iniziare citando il grande cascinale detto Corte Regina a Crescenzago.

Corte regina

Secondo alcuni studiosi, la fondazione del sito rurale di Corte Regina si fa risalire alla regina Teodolinda. Analogamente la collegata via Rottole sembra rimandare a Rotari, re dei longobardi dal 636 al 654. Ai numeri civici 56 e 60 troviamo una vecchia cascina, con corte centrale, e segni esteriori d’una lontana bellezza: i profili esterni delle cappe di camini d’epoca, finestre e archi antichi, un portico travato.

Qui avevano il loro monastero le monache della Vettabbia, fin dalla fine del 1200 proprietarie di molti terreni intorno al fiume Lambro. La loro presenza in questo territorio si protrarrà per altri 500 anni, fino al 1774, quando, a seguito della soppressione dei conventi operata dall’imperatore Giuseppe II d’Austria, anche il monastero di Corte Regina venne chiuso e le sue proprietà, distribuite fra privati acquirenti e la parrocchia di Crescenzago, divennero cascine agricole. 

Il ricercatore Enrico Negri nel 1942, così descriveva il luogo in Note storiche riguardanti la frazione Corte Regina, pro manuscripto: «… un pittoresco gruppo di antiche case che furono fondate e possedute verso la metà del secolo XIV da Beatrice della Scala […]. I locali a terreno delle case di Corte Regina sono ampi, hanno i soffitti a cassettoni, finestre alte con inferriate e, in alcuni di essi, vi sono i larghi camini sopra ricordati a lato dei quali vedonsi sedili in mattoni e panche».

Dalle medesime memorie veniamo a sapere in quali condizioni si trovava la frazione di Corte Regina nella prima metà del ’900 e quali erano stati i suoi principali proprietari e abitanti dalla fine dell’800: 

«Verso la fine del secolo scorso la chiesa di Corte Regina e i resti del Monastero erano di proprietà della Famiglia Galbiati; passò poi a certo Minoia e oggi appartiene al signor Imperatori, che credo abiti attualmente a Roma. Le altre case dell’antica frazione, benché anch’esse deturpate nei secoli scorsi, forse subirono danni meno gravi: le possiamo vedere anche oggi allineate verso la via delle Rottole con le loro facciate in mattoni, le torricelle dei loro antichi comignoli, e un portichetto con sedili di pietra presso l’osteria, una di quelle osterie all’antica ove all’inverno la gente si trattiene ancora a riscaldarsi seduta sulle panche poste ai lati dell’ampio camino e dove all’estate si può gustare del buon vino spillato nelle fresche cantine. Dall’altro lato della strada, scorre una roggia in riva alla quale alcune lavandaie della frazione sciacquano cantando i loro panni. Oh! benedetta campagna lombarda che già rivivi tanto vicina alla città! Oggidì attorno alla chiesetta e ai resti del Monastero regna la pace campestre, e la loro forma sorge tra il verde degli orti e dei campi vicini lambiti dalla Dardanona. Sembra che essi aspettino la resurrezione…»

Fu proprio dal sig. Imperatori che don Giuseppe Del Corno, parroco di San Giuseppe dei Morenti, riuscì ad ottenere verso la metà del 1900 la chiesetta dei Re Magi, un monumento del gotico lombardo del XIV secolo, nel frattempo venduta e ridotta a cascina, per poterla ripristinare nel suo antico splendore.

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