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La disuguaglianza, una ferita per tutta la comunità

Una ricerca molto interessante di Fondazione Cariplo analizza le disuguaglianze e il loro peso in rapporto all’educazione

Ci è sembrato molto interessante – proprio in occasione della riapertura del nuovo anno scolastico – pubblicare un piccolo stralcio della bella ricerca commissionata da Fondazione Cariplo, (a cura di Fe­derico Fubini), dal titolo “Disuguaglianze, Superare gli ostacoli nell’età della formazione – la crescita e i percorsi di istruzione” che è possibile scaricare nella sua forma integrale da: www.fondazionecariplo.it.

Per ragioni di spazio pubblichiamo due stralci che ci sono parsi i più interessanti in rapporto ai ragazzi che si apprestano a iniziare un nuovo anno scolastico e, in particolare, quella che riguarda la situazione delle istituzioni educative, ovvero il difficile equilibrio tra condizioni di origine dei ragazzi e l’efficacia dei percorsi di istruzione (di Daniela Fadda, Marta Pellegrini e Giuliano Vivanet), e quella che sonda il significato di “Essere adolescenti a Milano”, in cui Federico Fubini si domanda se la mentalità dei più giovani  stia cambiando e se esista un solo punto di vista “generazionale”. Buona lettura!

La scuola in salita

La letteratura sulle disuguaglianze educative è ampia e con una lunga tradizione. Vedremo quanto le condizioni socioeconomiche e culturali possano influenzare i percorsi di apprendimento delle nostre studentesse e dei nostri studenti.

Partiremo da un dato più generale proveniente dall’OCSE, un’organizzazione internazionale che promuove differenti indagini sui grandi temi di interesse mondiale. Tra queste, il Better Life Index consente di confrontare il grado di benessere di diversi Paesi, sulla base di più dimensioni. Osservando l’Italia, notiamo un Paese dalle differenti facce, con buoni risultati (al di sopra della media) per le condizioni generali di salute, l’equilibrio tra il lavoro e la vita privata e l’impegno civile; e risultati meno positivi (al di sotto della media) per il reddito, l’occupazione, la qualità dell’ambiente, le relazioni sociali, la soddisfazione per la vita e l’istruzione.

Riguardo a quest’ultima, esistono ormai risultati di ricerca chiari sulla stretta relazione esistente tra qualità dell’istruzione e qualità della vita, a livello sia del singolo individuo sia della società nel suo complesso.

Mediamente, infatti, chi ha una buona istruzione ha maggiori probabilità di assumere un ruolo attivo nella società, di sentirsi più realizzato, di godere di una salute migliore e vivere più a lungo. Allo stesso modo, sono evidenti i rischi legati all’abbandono scolastico e a bassi livelli di istruzione, tra cui un minore reddito medio, con ciò che ne deriva in termini di opportunità.

Eppure, a oggi, la realizzazione di un sistema equo di istruzione, in grado di offrire a tutti pari opportunità di apprendimento è un obiettivo che, pur con grandi differenze tra un Paese e l’altro, non può dirsi pienamente raggiunto in nessuna nazione dell’area OCSE.

Quando parliamo di un sistema “equo” di istruzione non intendiamo che tutti gli studenti debbano necessariamente acquisire le stesse conoscenze e competenze al termine degli studi, piuttosto che le naturali differenze che ci possono essere in termini di livelli di apprendimento tra uno studente e l’altro non siano determinate da, ad esempio, le origini familiari, il genere, la provenienza geografica, la disponibilità di beni o il fatto di essere immigrati; tutti elementi su cui i nostri figli non hanno responsabilità né possibilità di controllo.

Quanto quei fattori appena richiamati influenzano i risultati di apprendimento; la scelta tra i diversi percorsi di scuola superiore; la probabilità di conseguire determinati livelli di istruzione o piuttosto di abbandonare gli studi precocemente, oltreché il benessere stesso dei nostri studenti. Si tratta di dimensioni tra loro strettamente interconnesse; si pensi, ad esempio, a come un “cattivo” andamento negli studi possa alimentare il sentimento di sfiducia nelle proprie capacità in un adolescente, e come questo, a sua volta, possa portare a un minore impegno e a sviluppare una scarsa motivazione negli studi, e ancora a quanto tutto ciò, reciprocamente, possa determinare un peggioramento nei risultati scolastici, condizionando la scelta stessa di proseguire negli studi e, dunque, il suo futuro successo.

Essere adolescenti a milano

Siamo abituati dai media e da un certo tipo di racconto tradizionale a vedere gli adolescenti come un mondo omogeneo. Li immaginiamo come contestatori oppure indifferenti, abulici, o come più moderni di noi, appassionati di nuove culture oppure ancora come propensi a comportamenti irresponsabili, dipendenti dai social media, dai videogiochi o da varie sostanze. Comunque si tende a pensarli come un tutt’uno. Di rado si affaccia l’ipotesi più plausibile: che siano diversi e divisi fra loro come lo è la collettività nel suo complesso.

Non è chiaro in effetti perché dovrebbe esistere un solo mondo degli adolescenti, una sola cultura generazionale, quando il resto della società è segregato secondo criteri di ogni tipo: di patrimonio ereditato o accumulato, di reddito, di trattamento fiscale dei redditi, di titolo di studio, codice postale di residenza o semplicemente di dimensioni e dinamismo del proprio centro abitato, di efficienza del servizio sanitario nazionale nella propria provincia o di velocità della rete digitale.

Sembra più prudente muovere dall’ipotesi che non esista un solo mondo degli adolescenti come non ne esistono per le altre generazioni. Se dunque si vuole comprendere meglio il loro punto di vista, il modo in cui essi vedono regole e opportunità del sistema o il modo in cui vedono se stessi e il proprio futuro, servono almeno dei criteri. E possono esservene molti, oltre quelli appena elencati.

Poiché però l’età dell’adolescenza è alla cerniera fra l’influenza preponderante dei genitori, la ricerca di altri modelli e l’ingresso nella vita adulta, abbiamo scelto un metro che ci sembra indicativo: il titolo di studio dei genitori, considerando anche questo una buona approssimazione di molte altre differenze presenti della società.

Vista la bassa mobilità educativa fra le generazioni in Italia […] abbiamo ipotizzato che questa fosse una discriminante efficace. […] Essa si correla ad altre variabili relative al contesto professionale, al reddito e al patrimonio, alle prospettive professionali o allo stato di salute. In concreto, ad essa siamo arrivati presumendo che gli allievi di un liceo classico di grande tradizione nel centro di Milano avessero genitori di un certo livello educativo e gli allievi di un istituto professionale della periferia di Milano ne avessero uno diverso. Alla prova dei fatti è così. I 186 studenti fra i 14 e i 16 anni di un liceo classico del centro di Milano da noi interpellati – che chiameremo con il nome di fantasia “Liceo Montale” – hanno padri e madri che nel 77,5% dei casi detengono una laurea oppure (più o meno la metà fra loro) un diploma superiore alla laurea. Hanno invece un retroterra familiare diverso i loro 118 coetanei dell’istituto professionale – che chiameremo con il nome di fantasia “Istituto Ungaretti” – dove ci si prepara dopo la terza media in vista di un impiego nel turismo e nell’accoglienza, da meccanici o nelle officine, da elettricisti o impiantisti, da informatici o in mansioni di ufficio per ragazzi diversamente abili: solo il 9% dei genitori ha una laurea, quasi mai un titolo di studio superiore alla laurea, mentre il 31% dei genitori non va oltre la licenza media.

Questi due gruppi sono parsi campioni adatti per provare a verificare empiricamente, in primo luogo, se alcune delle caratteristiche diverse per ceto sociale emerse nei test sui bambini prescolari permangono fra i 14 e i 16 anni: il grado di fiducia nel prossimo è ancora più alto fra i ragazzi di buona famiglia?

Lo è anche la capacità di questi ultimi di tenere conto del punto di vista altrui?

La risposta a queste domande, nel nostro caso specifico, è affermativa. A una serie di domande, attraverso un questionario digitale anonimo, i ragazzi del liceo classico “Montale” si sono dimostrati nel complesso più portati alla fiducia verso il prossimo e il sistema circostante e più propensi alla “mentalizzazione”: a tenere conto cioè del pensiero degli altri da un punto di vista il più possibile oggettivo. In altri termini, le tendenze delineate fra i bambini di ceti diversi a cinque anni sembrano essere visibili anche fra i ragazzi di una decina di anni più grandi.

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