La redenzione di Jess il bandito

Scomparso a 90 anni Arnaldo Gesmundo, uno dei protagonisti della “mitica” rapina di via Osoppo.

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di Matteo Speroni


Nell’aprile del 2020 il virus allungava la sua ombra sul mondo intero e avvolgeva Milano che, con la Lombardia, deteneva il lugubre primato di contagi e vittime. La mattina di domenica 19 se ne andava Arnaldo Gesmundo, detto Jess il bandito, classe 1930, colpito da un’infezione proprio durante i giorni più difficili, drammatici per gli ospedali, quando la pandemia negava anche i riti funebri.

Qualche anno fa, nel 2014, Gesmundo aveva raccontato la sua vita nel libro Il ragazzo di via Padova. Vita avventurosa di Jess il bandito, scritto a quattro mani con me. In quelle pagine Arnaldo narrava che da bambino, nel quartiere di Milano dove era nato, quello di via Padova, la gente lo chiamava il “Tato”. Dopo alcuni anni, il Tato, per le cronache, era diventato “Jess il bandito”, uno dei sette autori della celebre rapina di via Osoppo del 1958, l’assalto a un furgone portavalori, poi chiamata “la rapina del secolo”.

Nato in strada, in piazzale Loreto, mentre la madre cercava di raggiungere l’ospedale per partorire, Gesmundo è cresciuto con i genitori e due sorelle in una casa di ringhiera di via Arquà (allora via Beretta), in un negozio trasformato in appartamento, senza bagno, gas, energia elettrica, riscaldamento e nemmeno finestre.

Il piccolo Arnaldo ha vissuto gli anni del fascismo, la guerra e, in quel periodo, l’esordio in prigionia, nel 1944, per una ragazzata: a scuola aveva gettato dell’inchiostro rosso su una foto di Mussolini. Finì nelle famigerate celle della Legione Ettore Muti, dove ora sorge il Piccolo Teatro, e il 10 agosto del ’44 rischiò di essere fucilato in piazzale Loreto assieme ai 15 antifascisti vittime di una rappresaglia (fu salvato dall’inaspettato aiuto di un conoscente).

Poi, nel 1945, dopo la Liberazione, a Milano c’erano armi dappertutto, nelle case, nelle cantine: “Tutto sembrava facile, la polizia non era organizzata”, racconta Gesmundo, affascinato fin da bambino dalla “ligera”, la malavita “leggera”, che spiava dalle vetrate delle osterie e gli ispirava un senso di libertà e coraggio. Gesmundo così ha cercato il riscatto dalla parte sbagliata, nella scorciatoia della malavita. Da piccoli furti e rapine, è arrivato al grande “colpo”, quell’assalto compiuto con le armi ma senza sparare – Jess non ha mai tirato il grilletto in vita sua –, che suscitò persino ammirazione popolare, intercettata da Indro Montanelli in un articolo sul Corriere. Di quei “sette uomini d’oro”, come vennero definiti i banditi, individuati e arrestati nel mesi seguenti il colpo, dopo la scomparsa nel 2010 di Luciano De Maria, amico fraterno di Gesmundo, è sopravvissuto soltanto Ugo Ciappina, i cui rapporti con Jess si erano interrotti da molto tempo.
Gesmundo, a causa di via Osoppo e di altre condanne, trascorse, in totale, 23 anni dell’esistenza in prigione, in nove istituti diversi, a partire da San Vittore (dove stabilì un carteggio con l’allora capocronista del Corriere Franco Di Bella). Sopravvisse alle detenzioni più dure, tra cui quella nel carcere di Procida (“un pagliericcio di alghe marine, sporco, senza lenzuola, e una finestrella a sbarre che dava su un corridoio”).

In cella, Gesmundo leggeva molto e si batté ovunque per promuovere la creazione di biblioteche negli istituti penali. Sopravvisse a un terribile incidente d’auto, una volta libero, negli anni Ottanta: “Mi hanno dato due volte l’estrema unzione”, ricordava con un sorriso beffardo.

Legatissimo alla moglie Apollonia, compagna che gli è stata vicina anche nei momenti più difficili, Gesmundo da anni, in privato e negli incontri pubblici, ripeteva a tutti, soprattutto ai giovani, di non commettere i suoi errori. Di vivere in modo onesto e di leggere, perché “i libri sono stati la mia salvezza”.

L’ultimo saluto ad Arnaldo si è svolto il 31 maggio (tre giorni prima, il 28, avrebbe compiuto 90 anni) con un rito che sembra d’altri tempi, anzi, fuori dal tempo: Apollonia e una quindicina di amici su uno scivolo digradante nel Naviglio Martesana, a turno, hanno disperso dall’urna le ceneri nel canale. Niente abbracci, tutti con la mascherina, gli sguardi si incrociavano tra poche parole. Alcuni passanti, a piedi o in bicicletta, si fermavano incuriositi per cercare di capire che cosa stesse succedendo lungo questa ansa della Martesana, ai confini di Milano, di fronte a un’antica trattoria, sotto le fronde di un gelso. Mentre la cenere lasciava una lunga scia chiara nell’acqua che scorreva verso la città.