di Brando Benifei – Eurodeputato PD
L’esito delle elezioni americane sta avendo, se possibile, effetti ancora più dirompenti di quelli ipotizzati su moltissimi scenari e, a differenza della sua prima amministrazione, stavolta Donald Trump sembra essere arrivato molto più preparato dinanzi alle sfide che gli Stati Uniti hanno davanti.
Trump sembra soprattutto avere un enorme desiderio di rivalsa, che lo porta a voler monetizzare prima possibile l’indiscutibile successo ottenuto lo scorso novembre, quando ha vinto anche nel voto popolare, nella stragrande parte delle contee e in entrambi i rami del Congresso. Da qui derivano l’elevatissimo numero di ordini esecutivi, la postura aggressiva rispetto alle due guerre in corso più “visibili” e impattanti per l’Occidente, lo stesso approccio nei confronti del vecchio continente.
Hanno impressionato tutti la derisione e l’umiliazione riservata a Zelensky nell’ormai famigerato incontro nello Studio Ovale della Casa Bianca.
Per la prima volta dal dopoguerra i rapporti transatlantici rischiano di essere stravolti
È inutile sottovalutare o addirittura nascondere la situazione alla quale stiamo andando incontro: per la prima volta dal secondo dopoguerra i rapporti transatlantici rischiano di essere stravolti con il rischio concreto di rottura su dossier fondamentali come la fine del conflitto in Ucraina, le politiche di difesa, un’economia fondata sui dazi.
Partiamo dall’Ucraina. La distanza tra Stati Uniti ed Europa è emersa plasticamente nelle ultime votazioni all’Organizzazione delle Nazioni Unite. In Assemblea generale è stata respinta una risoluzione proposta dagli USA, dove non era indicata la Russia come Paese invasore e non veniva menzionata l’integrità territoriale dell’Ucraina. Successivamente, un nuovo testo, comprensivo di questi due elementi fondamentali è stato approvato con 93 voti favorevoli (Italia inclusa), 65 astensioni (tra cui Cina e India) e 18 contrari: svetta per interesse proprio quest’ultima platea, che comprende Stati Uniti, Corea del Nord, Israele, Sudan, Ungheria e la stessa Russia.
Sempre nel giorno del terzo anniversario del conflitto, si è almeno evitata una nuova rottura in sede di Consiglio di sicurezza, approvando però una breve risoluzione, che si limita ad auspicare una rapida fine della guerra: hanno votato a favore 10 componenti (tra cui Cina, Russia e Stati Uniti), ma a dare un significato politico alla votazione sono stavolta i 5 astenuti, tutti Paesi europei, cioè i membri permanenti Francia e Regno Unito, a cui si sono aggiunti Danimarca, Grecia e Slovenia.
Strettamente connessa alla vicenda del conflitto ucraino è la grande questione della difesa comune europea, che negli ultimi decenni è emersa carsicamente e sembrava essere arrivata a una svolta positiva – poi, come noto, non realizzata – con la brexit, che consentiva il superamento dalla tradizionale posizione di contrarietà britannica all’esercito unico dell’Unione europea.
Sui costi della guerra e sulla volontà di “recuperare” gli investimenti dei cittadini americani per la sicurezza ucraina, Trump e voci della sua amministrazione sono intervenuti più volte ed è stato emblematico lo scambio con Emmanuel Macron, ospite nello studio ovale della Casa bianca, il quale è intervenuto per correggere il presidente americano e rimarcare come il 60% dello sforzo bellico sia stato sostenuto dall’Europa, senza badare poi alle conseguenze sull’approvvigionamento energetico.
Siamo di fronte al principio di una guerra commerciale in mezzo a una sarabanda di annunci e smentite
Un terzo capitolo dei rapporti tesi tra Europa e Stati Uniti è costituito all’imposizione di tariffe sulle importazioni. Trump ha, infatti, già annunciato dazi del 25% su acciaio e alluminio, minacciando interventi probabilmente a inizio aprile su automobili, semiconduttori e prodotti farmaceutici. Siamo di fronte al principio di una guerra commerciale in mezzo a una sarabanda di annunci e smentite e con la difficoltà di prevedere la quantificazione delle nuove tariffe e dei loro effetti. Per essere molto preoccupati è sufficiente pensare a cosa accadrà al settore dell’industria automobilistica: gli Stati Uniti importano quasi la metà dei veicoli e, quindi, sarà enorme l’esposizione, ad esempio, della Volkswagen e, di conseguenza, dell’Italia, che è bene ricordare ha proprio Berlino come primo partner commerciale.
Un ruolo sarà certamente giocato dalla Germania e il cancelliere in pectore Friedrich Merz ha subito dichiarato la volontà di tenere unito il vecchio continente, cercando di fare leva sia su un asse con la Francia, nonostante la fragilità interna di Macron, sia su una ritrovata intesa con il Regno Unito.
E l’Italia? Cosa fa il governo di Giorgia Meloni? In estrema sintesi, possiamo dire che si barcamena, senza traccia però di una decantata “ritrovata centralità” per il nostro Paese sullo scenario internazionale. Basta vedere cosa è accaduto sull’Ucraina: all’ONU abbiamo votato con gli altri Stati europei, ma non si vuole smarrire questa presunta special relationship con Trump e allora si ridimensiona la portata del contingente europeo, auspicando genericissime garanzie di sicurezza «reali ed efficaci».
Sui dazi abbiamo avuto di recente le preoccupanti parole del vice presidente Salvini per cui l’Europa non dovrebbe averne paura, ma dovrebbe invece preoccuparsi di qualche nemico interno, che starebbe distruggendo interi comparti industriali: insomma il leader della Lega fa un po’ da megafono a un altro vice presidente, quello americano J.D. Vance, e si rivela ancora una volta molto inadeguato nel difendere gli interessi italiani ed europei.
Sulle tariffe sarà invece fondamentale una vera unità europea e abbiamo l’esigenza di coordinarci per dare risposte comuni: se qualcuno al governo sogna accordi separati, è bene che si ricreda in tempo, perché potrebbe essere una via rapida per infilarsi sotto un permanente ricatto.
Non è sufficiente illuminare la facciata di Palazzo Chigi di giallo e blu per essere attori credibili e affidabili sulla scena internazionale e la supposta capacità di condizionare il presidente americano deve essere verificata nella concretezza degli interessi italiani. Basta tattiche ed equilibrismi. Se Trump e Musk cercano
di cambiare il mondo, una risposta non può essere data in ordine sparso, ma ne serve una dall’Europa unita, che deve far sentire la sua voce su diritti dei suoi cittadini, economia e democrazia.