Nato a Milano nel 1950, si laurea in giurisprudenza e, successivamente dal 1974 al 1997, è alla guida con il fratello dell’azienda metalmeccanica fondata dal padre nel 1932. Ha ricoperto numerose cariche nell’ambito di Confindustria e Assolombarda, presidente della Piccola Industria e di Federmeccanica (Federazione sindacale dell’industria metalmeccanica italiana). Eletto nel 2004 al Parlamento Europeo, è stato membro di diverse commissioni, tra cui quella per i Trasporti e il Turismo e per l’Industria, la ricerca e l’energia. È stato inoltre vice presidente della delegazione del Parlamento europeo per le relazioni con la NATO. Nel giugno 2009 è rieletto eurodeputato ed è nominato presidente della Commissione Affari esteri. Nel marzo 2013 è senatore della Repubblica, prima membro della Commissione Difesa e Affari Costituzionali, poi della Commissione Giustizia. È sua la legge che prevede il risarcimento delle spese legali all’innocente ingiustamente inquisito. È stato insignito di numerosissime prestigiose onorificenze italiane e straniere.
Quando ricopriva le importanti cariche nelle organizzazioni datoriali era anche il tempo delle Brigate Rosse. Problemi?
«Capitava che in aziende in cui non tutti i lavoratori scioperavano facessero irruzione gruppi di 3/400 persone per creare disturbo. Erano sconosciuti in fabbrica, tra cui avrebbero potuto nascondersi anche terroristi. Mentre in altre fabbriche si registravano danni notevoli per ogni “spazzolata” (così venivano chiamate queste visite), nella nostra non hanno mai fatto danni importanti, le scritte sui cancelli le facevano col gesso, mentre sui vetri usavano i pennarelli. Da indagini fatte in azienda, anche da giornalisti al tempo della candidatura, era emerso che ero considerato un duro ma giusto e questo giudizio mi ha permesso di vivere in azienda relativamente tranquillo.
Quando ero presidente della Piccola Industria di Assolombarda ho però rischiato di essere gambizzato. Siamo nel 1978 e la BR hanno sparato alle gambe del mio omologo di Torino Ravaioli e a quello di Genova Schiavetti. A Milano era ragionevole pensare che toccasse a me ma sono stato salvato grazie a una bellissima ragazza, figlia del farmacista di Portovaltravaglia, con cui sono stato fidanzato per anni. Lei studiava a Pavia, io andavo spesso a trovarla e mi fermavo a dormire da lei, andando poi la mattina direttamente in ufficio. Da un brogliaccio sui pedinamenti effettuati, ritrovato in un covo brigatista, è emerso che le mie uscite di casa mattutine erano talmente irregolari da convincerli a cambiare obiettivo. Hanno infatti colpito al posto mio Gavino Manca, amministratore delegato della Pirelli».
Come è nata la candidatura a sindaco?
«La candidatura mi è stata proposta da Berlusconi, che era fortemente preoccupato perché il centrosinistra aveva presentato il suo candidato con largo anticipo rispetto alle elezioni, facendo una scelta coraggiosa: non si trattava di un uomo di partito o vicino a quel mondo, ma era Aldo Fumagalli, presidente nazionale dei giovani industriali, appartenente a una importante famiglia di imprenditori. Berlusconi non poteva credere che la nostra parte, riferimento per la borghesia produttiva, non trovasse un imprenditore da proporre.
Si era quindi dato da fare e allora sono entrato in scena io ma, fino a un certo punto, senza saperlo. Lo saprò solo a cose fatte, in quanto vengo “raccomandato” da due personaggi molto importanti e vicini a Berlusconi: Cesare Romiti, amministratore delegato Fiat e il più importante associato di Ferdermeccanica e Confalonieri, membro del Comitato di Presidenza di Assolombarda quando io ne ero vice presidente e da sempre amico e consigliere di Berlusconi. A Berlusconi ho detto quattro volte no, ho preso tempo, ho accampato i miei impegni con l’azienda, ma non solo, avevo firmato il contratto dei metalmeccanici che non potevo abbandonare perché doveva essere seguito e implementato.
Durante l’ultima telefonata Berlusconi è riuscito a trovare la motivazione per me più importante, che era la coerenza. Mi ha fatto rilevare che non ero solo l’industriale confinato tra i cancelli della fabbrica, ero anche presidente della più importante categoria dell’industria quindi, mentre ora rifiutavo di fare il sindaco, prima avevo accettato di rappresentare i valori, gli interessi, il sistema che configura la funzione sociale ed economica dell’imprenditore, quindi avevo già espresso una vocazione politica nel mio agire e mi stavo sottraendo a qualcosa non coerente con le mie scelte. Quella ultima telefonata ha cambiato il corso della mia vita perché, di fronte a tali argomentazioni, ho accettato di candidarmi».
Quali sono i progetti realizzati nel suo decennio di “amministratore del condominio Milano”, come ama definirlo, che hanno cambiato la città?
«La lista è lunga. Quando sono arrivato a Palazzo Marino, Milano non aveva ancora depuratori, scaricava direttamente nel Po, inquinando l’Adriatico, con rischi per la salute dei cittadini e di sanzioni dalla UE. In poco meno di quattro anni ho portato a termine la costruzione di tre depuratori. E poi la centrale elettronica computerizzata per il controllo del traffico, un termovalorizzatore, la cablatura della città, il restauro e la ristrutturazione del Teatro alla Scala, il passante ferroviario, il polo di Rho/Pero della Fiera di Milano, l’inaugurazione di otto stazioni della metropolitana, 35 mila parcheggi interrati realizzati e 73 mila programmati, la cantierizzazione della linea 4 della MM, la progettazione e il finanziamento della linea 5, la progettazione e il finanziamento del Museo del Novecento, il Teatro degli Arcimboldi, il restauro del Castello Sforzesco e di Palazzo Reale, la trasformazione urbanistica di oltre 11 milioni di mq. di aree industriali e di servizi dismesse con investimenti privati internazionali di oltre 30 miliardi di Euro e opere pubbliche per oltre 6 miliardi».
È riuscito ad attrarre gli investimenti giganteschi appena citati senza ricevere un avviso di garanzia. Allora, è possibile?
«Abbiamo coinvolto nello sviluppo della città i più importanti immobiliaristi del mondo. Cito, uno per tutti, Gerry Hines, americano che opera a livello mondiale e ha investito due miliardi e mezzo sul progetto Garibaldi/Repubblica. Gli ho chiesto perché avesse deciso di investire a Milano. Mi ha risposto: “perché ci siamo informati e abbiamo capito che nella vostra amministrazione non c’è un “cartaro” che dà le carte truccate, per cui noi sappiamo di poter concorrere con le nostre risorse e la nostra capacità imprenditoriale non dovendo percorrere strade parallele”. Abbiamo chiamato i migliori architetti al mondo (Zaha Hadid, Libeskind, Isozaki, Botta, Caputo, Pei Cobb, Pelli, Wilson e altri, tra i 12 migliori al mondo) che hanno progettato la skyline milanese e restaurato i nostri edifici più prestigiosi trasformando Milano in una grande città che può competere con le grandi capitali del globo.
Per evitare di incorrere in rischi corruttivi abbiamo introdotto diversi strumenti: appena nominato sindaco ho pensato e richiesto un rapporto diretto con la Procura. Non potevo pensare di affidare incarichi a chi avesse ricevuto un avviso di garanzia o, comunque, fosse sospettato di corruzione. Il procuratore capo dottor Borrelli aveva accettato questa collaborazione, capendo la mia necessità di trasparenza. Si era instaurato un rapporto delicatissimo, riservato, che mi aveva fatto capire che amministratore e inquisitore potevano lavorare insieme.
Ma, oltre a Borrelli, altri magistrati mi avevano offerto collaborazione. Gherardo Colombo mi aveva fatto la proposta più interessante e utile proponendomi di lavorare col Comune insieme ad altri due magistrati, PM in carica (la dottoressa Ciaravolo e il dottor Gittardi), a titolo gratuito, per fare attività di contrasto alla corruzione. Avevo subito accettato, affiancando a questi tre magistrati tre alti dirigenti del Comune. Abbiamo chiamato il gruppo “Alì Babà”, perché doveva contrastare i quaranta ladroni.
In un certo senso abbiamo anticipato di più di vent’anni l’ANAC – Autorità Nazionale Anti Corruzione. Il nostro gruppo di 20 anni prima, in maniera meno clamorosa ma molto più efficace, ci ha consentito di ottenere suggerimenti, consigli e condotte, poi applicate, che hanno portato grandi risultati, di cui uno fondamentale. Attraverso questo gruppo, infatti, il Comune di Milano ha introdotto nel suo sistema di appalti il patto di integrità, un tipo di rapporto in cui l’appaltante sottoscrive l’obbligo di rispettare tutte le regole. Se trovato colpevole di qualche irregolarità viene cancellato dall’elenco degli appaltatori e non può più partecipare ad altre gare. In nove anni questa procedura ha consentito di escludere da successivi appalti 600 aziende.
Ho inserito nell’organigramma il servizio di Internal Auditing, struttura nuova per il Comune di Milano. Ha funzionato molto bene con una ventina di impiegati, autorizzati ad accedere a tutti gli atti amministrativi per analizzarne sia la forma sia la sostanza. Il responsabile di questo Ufficio, che rispondeva a me, doveva valutare, fare ispezioni, acquisire documenti, intervenire in tutti gli uffici del Comune e delle partecipate per vagliare la correttezza economico finanziaria degli atti. Il responsabile di questo ufficio era anche membro del gruppo di lavoro Alì Babà; avevo poi introdotto l’ufficio e il ruolo del direttore generale, mantenendo sempre la figura del segretario generale.
Con tutti questi interventi sulla riorganizzazione della macchina comunale abbiamo potuto fare sei miliardi di opere pubbliche e farne arrivare più di trenta dal mondo senza un avviso di garanzia».
I nuovi quartieri hanno creato una città esclusiva, con costi non raggiungibili dai più.
«Nei cinquant’anni precedenti non era stato fatto molto, le metropolitane, il grattacielo Pirelli, il Galfa e la Torre Velasca. Ci siamo trovati 11 milioni di mq. di macerie (compresa l’area di Rho/Pero), mentre quelle della seconda guerra erano 3,5 milioni di mq. Il post industriale ha quindi prodotto molte più macerie rispetto a quelle dell’ultima guerra, non c’erano più le fabbriche e non c’era ancora la città. Nel 2015 l’Expo ha fatto da vetrina e Milano ha avuto un record di presenze esterne di turismo, mentre nel 2019 abbiamo avuto 500mila presenze in più rispetto al periodo Expo.
Nei nostri 10 anni volevamo valorizzare il territorio e abbiamo trasformato la città da una sorta di Tobruk urbana, almeno in certe aree, in City Life, Montecity, Garibaldi/Repubblica, ecc.; la città cool è quella che abbiamo creato, però sapevamo che avrebbe prodotto un effetto moltiplicatore dei valori immobiliari. Avevamo anche iniziato con l’edilizia convenzionata, però in termini contenuti perché il nostro obiettivo era di far crescere il valore e offrire successivamente la vivibilità a quelle persone che non potevano pagare i valori generati.
Chi è venuto dopo avrebbe dovuto essere molto più vivace nell’imporre a tutte le nuove ristrutturazioni e investimenti una quota di mercato calmierato per lavoratori, studenti e per tutti quelli che non potevano e non possono pagare cifre importanti».
Come percepisce la città di oggi rispetto al passato, migliorata o peggiorata nel suo insieme?
«Prima del Covid la città stava vivendo il momento cool. Il Covid ha creato la città neuronale, la chiamo così perché è una città di incontri, di interrelazioni, di scambi internazionali; ci girano film, vengono a vederla. Il confinamento ha creato a tutti grossi problemi poi, con la guerra in Ucraina abbiamo anche subìto il colpo dell’aumento del costo energetico, con il conseguente aumento dell’inflazione. Questo è il quadro, poi ci sono i problemi.
L’attuale amministrazione ha messo come priorità l’ecologia puntando sui trasporti. È però una posizione ideologica e si può dimostrare. In un recente articolo la giornalista Milena Gabanelli, che non è certo di centrodestra, ha fatto un esame sull’inquinamento in tutte le tipologie di trasporto, compresi gli aerei, che inquinano molto in quota ma il cherosene scende comunque nell’atmosfera. È emerso che tutti i trasporti rappresentano il 21% delle cause inquinanti, mentre il 45% (del 21%, quindi meno della metà) è imputabile all’autotrazione. Perché prendersela con le auto? Si tratta di posizioni antistoriche.
Io avevo una Panda diesel Euro 5 con 50mila km, ho dovuto sostituirla con una ibrida. Ho anche acquistato una Twizy Renault che non inquina quando si muove ma produce inquinamento quando la attacco alla spina dell’elettricità (il 23% dell’inquinamento è provocato dalla produzione di energia). Per me non è stato un problema cambiare l’auto, ma mi domando come fa un pensionato non benestante o chi lavora col furgone o, comunque usa l’auto per lavoro, ad affrontare una spesa consistente come l’acquisto di una vettura.
Altro problema è la sicurezza: l’immigrazione clandestina, che esisteva anche ai miei tempi ma in misura contenuta, ha raggiunto negli ultimi tempi numeri imponenti. Non la definisco microcriminalità ma criminalità predatoria. Quando si sottrae al pensionato il mezzo di sostentamento all’uscita dall’ufficio postale o si ruba in casa di una anziana o, ancora peggio, le si occupa la casa perché è in ospedale, allora parliamo di criminalità che colpisce tutti indistintamente, non microcriminalità. I dati ci dicono che il 60% dei reati predatori è commesso da stranieri clandestini non regolari, meno dell’1% della popolazione. Gli immigrati regolari sono invece persone per bene di cui abbiamo bisogno».
Fare il sindaco a Milano: quanto impegno personale?
«È un impegno totalizzante. Alla mia prima elezione avevo 46 anni. Il lavoro era estremamente impegnativo ma avevo le risorse anche fisiche per sostenerlo. Non c’è tregua, anche perché i cittadini si rivolgono al sindaco per qualsiasi problema, dalle buche sulle strade al disegno della città futura, dallo sviluppo culturale alla sicurezza. Milano è una grande città, fa da sola il 10% del PIL italiano. Il sindaco di Milano ha le responsabilità di un ministro di prima fascia – Interni, Esteri, Economia, per tutte le decisioni che deve prendere, per i risvolti che le sue scelte hanno anche a livello nazionale.
Tutta la visione prospettica di questo incarico ha una enorme complessità che richiede grandissimo impegno fisico, psicologico, morale, umorale. Un aneddoto: negli Stati Uniti un giornalista segue per tutta una giornata il presidente Johnson. A fine giornata gli dice che è impressionato dal fatto che non ha un momento libero. E Johnson gli risponde che c’è una attività più impegnativa della sua, quella di sindaco di Washington».
Perché non si è ricandidato la terza volta? Ai milanesi piaceva Albertini sindaco.
«Ho trascorso giornate ad asciugarmi gli occhi per la commozione che provavo per le telefonate che ricevevo, per le insistenze sia di tanti personaggi importanti (cardinali, ministri, generali) sia di gente incontrata per strada. Ho sentito dire cose su di me che di solito si dicono nell’elogio funebre. Io l’ho sentito da vivo ed è una bella emozione. Ho rischiato di accettare la terza candidatura ma mia moglie mi ha salvato, perché mi ha ricordato che vita facevo ed è riuscita a farmi desistere».
È stato Parlamentare europeo: cosa si aspetta l’Europa da Milano? e l’Italia?
«Milano è la città più europea d’Italia e anche la più italiana d’Italia perché solo il 5% della popolazione milanese nata a Milano è figlio di persone nate a Milano. I Grandi di Milano non sono nati qui a cominciare da Sant’Ambrogio, così come tanti personaggi che hanno lavorato per Milano. Montanelli, nel giorno del suo novantesimo compleanno mi ha detto: “ciò che sono lo devo a Fucecchio e ciò che sono diventato lo devo a Milano”.
Da Milano è partito tutto, nella storia recente le Cinque Giornate sono state il primo momento in cui il Risorgimento è diventato popolo, nel dopoguerra c’è stato lo sviluppo industriale, è la seconda città europea che viene illuminata dall’energia elettrica, Mussolini fonda il suo partito in piazza San Sepolcro, parte da Milano per la marcia su Roma e ritorna a Milano in Piazzale Loreto. C’è il dopoguerra col miracolo economico, il centrosinistra, Forza Italia e la Lega. Mentre l’Europa considera Milano disgiunta dall’Italia, l’Italia guarda a Milano come a un modello, da cui assorbire tutto ciò che produce in termini di idee, mode».
Mancano circa due anni alle elezioni amministrative. Non sarebbe il caso di smettere con le contrapposizioni tra i partiti per convergere su un candidato che rappresenti veramente la città, super partes, insomma un altro Albertini?
«Sono decisamente favorevole a un candidato civico. Il candidato politico al massimo prende i voti dalla sua coalizione, e magari neanche tutti, mentre il candidato civico può allargare il consenso anche ai moderati e agli astensionisti, che sono prevalentemente di centrodestra».
Gabriele Albertini, sindaco senza tessere di partito, ha portato per 10 anni la sua esperienza imprenditoriale a Palazzo Marino e con questa esperienza è riuscito a far funzionare la complessa macchina amministrativa di una grande città. Oggi Milano è considerata una metropoli che non è solo un centro per gli affari, la moda, la comunicazione, il design, ma attira anche semplici turisti che la considerano bella e piena di attrattive culturali per la sua storia. Non solo, la sua trasformazione urbanistica ne ha fatto una città nuova e stupefacente. Chi ha dato il via a questo trasformazione è proprio lui, Gabriele Albertini.




