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«Credo più nell’evoluzione che nella rivoluzione»

A colloquio con Vanni Cuoghi, artista di fama internazionale con studio a Precotto.

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Incontriamo Vanni Cuoghi in una ex cascina risalente al 1600, ancora proprietà di famiglia della storica Fonderia Napoleonica Eugenia, che negli anni si trasformò in una succursale della fonderia stessa. Vanni ci accoglie in T-shirt e pantaloni neri con estrema gentilezza e, dopo qualche convenevole, partiamo con le domande.

Il primo ricordo artistico?

«Mio papà è uno scultore e il mio primo an­no di vita l’ho vissuto in un appartamento nel campanile di una chiesa a Genova, in cui avevamo la casa al piano di sopra e lo studio sotto. Casa e bottega, una cosa quasi medievale. 

Il secondo ricordo invece è la copertina di un fumetto di Tarzan, che per me è stata il passepartout per studiare la figura umana. Un giorno mio padre mi ha portato a Roma a vedere il giudizio universale di Michelan­gelo, e mi sono detto: “Caspita, quanti Tarzan!”. Quindi il passaggio da Tarzan a Michelangelo è stato molto lineare. Paradossalmente, molti anni dopo ho scoperto che il più grande disegnatore di Tarzan (Bart Nogart) era un docente di anatomia all’U­niversità di Chicago e che tutti i suoi studi anatomici partivano dai principi michelangioleschi, che poi riportò in Tarzan».

Si nasce artisti o si diventa?

«Secondo me c’è una predisposizione che è legata all’interesse personale. Però deve es­sere coltivata, soprattutto nella professione dell’artista. A me piace pensare che l’artista sia una delle professioni in cui ‘essere’ e ‘fare’coincidono. C’è una pratica che devi innestare, una disciplina sia di ordine mentale che fisico. 

Un’altra cosa che mi piace sottolineare è che ho capito di essere un artista molto tardi. Me l’hanno dovuto dire gli altri. Per me il fatto di definirmi artista era una cosa da prendere con cautela. L’artista era ed è per me una figura importante, con un ruolo fondamentale, un intellettuale fatto e finito. Il fatto di definirmi tale era per me un atto un po’ presuntuoso, non mi sentivo pronto».

Sei riuscito a realizzare i tuoi sogni?

«La vita mi ha dato molto più di quanto immaginassi. Ho fatto molti lavori, però alla fine l’arte tornava sempre. Quando finalmente mi sono deciso a fare l’artista a tem­po pieno, ho preso coscienza che effettivamente era ciò che volevo veramente. Tre settimane fa ho inaugurato una mostra personale a Hong Kong ed è stato motivo di grande vanto e orgoglio. Ben oltre quello che io stesso sognavo».

È reale lo stereotipo dell’artista tutto genio e sregolatezza?

«La sregolatezza dovrebbe essere per un artista la non adesione alle regole. Alighiero Boetti diceva che il lavoro dell’artista si muove seguendo la mossa del cavallo, che sulla scacchiera a un certo punto scarta di lato. E quello scarto è ciò che dovrebbe essere la sregolatezza dell’artista. Allo stesso modo, la figura dell’artista dovrebbe essere quella che si permette di fare, pensare e produrre cose che sono anticonvenzionali. 

Il ruolo dell’artista, che parla della realtà e ha a che fare con la realtà, è proprio quel­lo di innestare dei nuovi modi di pensare. Le modalità con cui mi approccio a questa cosa, i meccanismi che applico, sono meccanismi che personalmente reputo di rottura, perché devo mettere delle nuove parole all’interno di questo tipo di linguaggio, il mio piccolo mattone della rivoluzione deve esserci. Anche se credo più nell’evoluzione che nella rivoluzione».

Qual è per te la migliore ispirazione?

«Sono tante cose. È la vita fondamentalmente. La cosa più normale e più ovvia che ti può capitare può essere fonte di ispirazione. Si tratta solo di riconoscere cos’è che per te è fondante o fondamentale nel momento in cui lavori. In realtà dire “Mi sveglio con l’ispirazione” è un concetto sbagliato. Questo è un lavoro, una professione, le idee o l’ispirazione, dato che li prendi dalla vita, li hai sempre. La vita, quello che ti accade, è veramente una fonte inesauribile di cose da fare, da guardare da immaginare. Ci si può perdere».

Qual è il ruolo della sperimentazione, sia attraverso i materiali che la tecnologia?

«La sperimentazione è continua, costante e totale, proprio perché ho il problema di annoiarmi con una facilità incredibile. Tutte le mie mostre personali sono legate a un progetto dedicato allo spazio che mi ospiterà. Però la clausola è che, all’interno di questo progetto, la sperimentazione non deve mai mancare. Nel momento stesso in cui decido di affrontare un’idea e sviscerarla, adopero tutto quello che mi può servire per potenziare l’espressione di quel concetto, quell’idea, quell’immagine. 

Per me la pittura è un modo di pensare. È un modo di riflettere e anche di vivere. Ci sono delle analogie legate al fatto che quando dipingi cancelli, poni, sposti, cambi, butti via, tagli. Se io adopero gli stessi verbi nella vita, è esattamente la stessa cosa».

C’è un artista a cui ti sei ispirato?

«Innanzitutto dico una cosa che gli artisti solitamente non dicono mai. E cioè che il compito dell’artista è rubare il più possibile a chiunque abbia fatto dei passi prima di te. 

Hai tutta la storia dell’arte che ti viene incontro: il Rinascimento, il Barocco, ovunque ti giri hai ispirazioni. Secondo me i maestri servono, più che a insegnare delle cose, a dirti che forse sei sulla strada giusta. È come se seguissi dei sentieri non battuti e non sai se stai andando nella direzione giusta, ma di tanto in tanto trovi un segno che ti dice che quella è la strada giusta per te, perché quell’artista qualche anno prima ha fatto la stessa cosa e tu capisci che siete sulla stessa lunghezza d’onda. 

Secondo me più che maestri è importante trovare dei compagni di strada, cioè delle persone che fanno dei pezzi di cammino con te, durante il quale le idee vengono condivise, suffragate, supportate».

Ascolti musica mentre lavori o preferisci il silenzio?

«Dipende, solitamente ascolto musica, non la radio. Per esempio ora sto ascoltando delle sonate per liuto del ‘500, però una cosa molto strana è che ho dei cicli, nel senso che ci sono dischi che ascolto solo in certe stagioni. Per esempio i Cure e i Depeche Mode li ascolto in autunno. I Dead Can Dance invece, dopo novembre. D’estate ascolto musica più solare come i Duran Duran o l’indie italiana. Diciamo che la musica è più legata alla stagionalità rispetto a ciò che devo fare, un po’ come la frutta e la verdura».

L’arte e la moda

«La bellezza del periodo storico che stiamo vivendo è che c’è veramente una cucitura incredibile tra le cose. L’arte si innesta su tutto: cucina design, moda. Se vogliamo parlare in termini economici, le più grandi operazioni artistiche contemporanee sono sorrette da stilisti, come Prada, Trussardi, Etro. Penso che l’innesto con altre discipline può solo generare cose belle».

Milano è una città dove si può vivere darte?

«Milano è l’unica città in Italia dove un artista può pensare di vivere. L’unica in cui c’è un rapporto con l’estero. È il posto dove il mondo arriva continuamente, è un flusso costante, le gallerie nascono, crescono, aprono filiali. Se però vai a Los Angeles, New York, Hong Kong, ti accorgi che i termini sono molto diversi, l’Italia non se la fila nessuno. Noi siamo amati e riconosciuti all’estero come coloro che costruiscono, che sanno fare delle cose molto bene, però se parliamo di mercato dell’arte no, nell’arte internazionale l’Italia ha solo 3/4 artisti che contano». 

L’ultima mostra che hai visitato?

«Antonello da Messina, a Palazzo Reale. Davvero travolgente. Se dovessi salvare un solo quadro dalla distruzione del mondo sarebbe l’Annunciata di Palermo».

Parliamo di Zona 2 e in particolare nel quartiere in cui hai lo studio, Precotto.

«In realtà abito a Porta Venezia, ma paradossalmente conosco meglio la zona tra Precotto e Turro. E la trovo bellissima, ricca, molto più della creatività a tutti i costi di Nolo a cui preferisco ViPreGo. Pensiamo all’Oratorio di Santa Maria Maddalena, del 1500, la Cascina Viscontea in via Cislaghi, la Martesana. A volte mi piace camminare per scoprire nuovi angoli, anche se l’appuntamento fisso di tutti i giorni è al San Filippo Neri, che è diventato la succursale del mio studio. È uno dei tre punti gastronomici in cui coinvolgo e adesco le persone. Un altro è la pasticceria Motta, per le brioche e le torte. Quando poi arrivano delle persone che non riesco capire bene, li porto a mangiare il pesce a Gorla, all’Osteria i tre marinai».

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