Comin, cooperativa sociale con sede a Turro, nasce nel 1975 da una intuizione di Luigi Villa, che con molti altri si stava interrogando su come migliorare e rinnovare i servizi per i minori in difficoltà. Si era nella stagione della chiusura degli orfanotrofi, come di altri istituti nati nei secoli precedenti per assistere i più disagiati. Da grossi istituti isolati dal resto della società si volevano creare delle strutture più leggere, come “case tra le case”, che non isolassero i loro ospiti in un mondo a parte ma li aiutassero a stare in contatto con esso e permettesse loro – una volta superata la minore età o terminata la fase di difficoltà della loro famiglia – di ritornarvi con un progetto di vita positivo. Attualmente attorno alle 4 comunità educative che COMIN gestisce e a una fitta serie di servizi, operano circa 250 professionisti e 60 volontari su un territorio che è andato ben al di là del Municipio 2 e 9 e che copre altre 4 zone: Adda Martesana, Milano Ovest (Rho e Garbagnate), la Brianza e il pavese. Comin è oggi una realtà sociale profondamente radicata nel tessuto metropolitano: di cosa sia diventata oggi e delle sfide che l’attendono ne parlo con Emanuele Bana (presidente di Comin) e Sandro Mandrini (coordinatore pedagogico delle comunità educative).
Qual è la vostra missione?
Sandro: «Vediamo la società e cerchiamo di risolvere i problemi che si pongono: il lavoro sociale per noi è un lavoro di ricerca di soluzioni operative e concrete per il bene dei minori e delle loro famiglie!».
Come è cambiata nel tempo la presenza di Comin in zona 2?
«All’inizio – dice Emanuele – siamo partiti in zona 2 con una comunità per minori nello stile di una casa di accoglienza in un condominio; poi progressivamente ci siamo aperti di più alla cittadinanza con l’obbiettivo di sperimentare nuovi servizi con il Comune di Milano. Oggi, davanti ad un impoverimento delle relazioni sociali, dobbiamo preoccuparci di creare attorno alle nostre strutture di accoglienza dei contesti abitativi sufficientemente significativio. Da qui la necessità di collocare le comunità nelle corti, vicino ad associazioni di famiglie accoglienti, per recuperare i valore del buon vicinato».
Però ad un certo punto avete cominciato a occuparvi anche delle famiglie stesse dei ragazzi in difficoltà…
«È stata un’evoluzione naturale – risponde Sandro – abbiamo capito che se volevamo occuparci di minori in difficoltà non potevamo limitarci a dare loro un’alternativa temporanea a famiglie che erano diventate invivibili. Il rischio era rimandarli indietro dopo aver fatto un percorso di maturazione ma in famiglie che erano rimaste le stesse. Crediamo infatti che se la famiglia è spesso parte del problema, essa contiene in sé anche la sua soluzione. È quello che, ad esempio, facciamo quando andiamo nelle famiglie stesse dei minori o dopo eventi molto critici che hanno costretto il Tribunale ad allontanare i figli dai propri genitori. Li facciamo incontrare in spazi neutri per provare a ricucire la tela delle relazioni familiari oppure, quando lavoriamo con i servizi per rafforzare le capacità genitoriali, per prevenire situazioni di pregiudizio per cui debba intervenire il Tribunale per i minorenni decretando un allontanamento del minore dalla famiglia di origine».
Voi però vi occupate anche di affido familiare. Come mai?
Emanuele: «L’affido familiare è una delle modalità con cui si possono creare contesti più personalizzati di aiuto al minore. Si tratta però di individuare le famiglie adeguate e disponibili ad aprire la propria casa a questa esperienza di accoglienza, formarle e sostenerle nel momento in cui l’affido si attua. Lo facciamo dalla fine degli anni ‘90. Abbiamo così aiutato il formarsi di un collegamento tra reti di famiglie, che si chiama Associazione La Carovana nata nel 2008. Crediamo infatti nel valore del mutuo aiuto tra di loro, che viviamo già nello spirito della nostra impresa sociale».
E ultimamente invece come sta cambiando la vostra azione?
«Negli ultimi anni invece – continua Emanuele – abbiamo sviluppato maggiormente azioni che aiutassero i cittadini a rispondere ai propri bisogni a fare rete tra loro, a sviluppare legami sociali forti e positivi, orientati al benessere. È seguendo questa logica che abbiamo accettato di impegnarci nella riqualificazione dell’ex-convitto del parco Trotter e di aprire un servizio per gli anziani».
Che differenza c’è tra una impresa che fa business e una impresa sociale?
«In una cooperativa sociale – inizia Emanuele – o almeno in Comin, tutti i lavoratori sono soci perché sono legati da un principio di mutualismo e reciprocità». «Non siamo un’organizzazione verticistica ma democratica – continua Sandro – dove le scelte più importanti si prendono in modo consensuale a partire dai bilanci economici e dagli obbiettivi di sviluppo dei singoli servizi».
Quali sono i problemi più grandi per chi fa impresa sociale oggi?
Emanuele: «Siamo di fronte a due grandi problemi la cui soluzione è politica. Il primo è che gestiamo servizi che sono una risposta ai problemi dei cittadini. Ma purtroppo il sistema di Welfare non sembra comprendere una visione più generale di società giusta e inclusiva. Quella non la possiamo gestire noi e spesso è contraria ai valori di inclusione e solidarietà da cui noi partiamo. E poi, ed è il secondo problema, questi servizi sono spesso visti dalle amministrazioni comunali come una spesa e vengono “affidati” con la preoccupazione di risparmiare, quindi con criteri di massimo ribasso. Ma mal pagare i professionisti del sociale porta con il tempo all’impoverimento della qualità dei servizi stessi!». Sandro: «Oggi fare i professionisti del sociale è diventato poco attraente. Chi ci arriva da giovane ha spesso alle spalle solo una formazione universitaria, ma poca esperienza relazionale e un bagaglio di impegno sociale limitato. Questo fa sì che le nuove generazioni di educatori siano meno prone a sostenere la fatica e reggere nel tempo il peso emotivo di questo lavoro».