Incontro con Cochi Ponzoni, indimenticabile metà della mela formata dal duo Cochi e Renato; tra ricordi, aneddoti e nuovi progetti ancora in corso
di Piera Maria Marini, foto Davide Lopopolo
Se parliamo di cabaret il pensiero corre subito a Cochi e Renato, a Enzo Jannacci, a Gaber, Dario Fo, Franca Rame, a quel gruppo di attori che hanno inventato un genere di umorismo nuovo, surreale, strampalato, che ha catturato da subito il pubblico.
Abbiamo incontrato Cochi, che ci ha fatto una carrellata della sua vita, delle sue scelte, di quanto ha fatto per diventare il Cochi che conosciamo.
Milanese, quando era molto piccolo ha vissuto il tempo della guerra con i problemi di tutte le famiglie, rischio di bombardamenti, quindi sfollamento in luoghi più tranquilli rispetto a Milano; per la famiglia Ponzoni a Gemonio dove si trasferisce anche la famiglia Pozzetto, da sempre amici dei Ponzoni. E di qui comincia una storia.
Negli anni in cui hai iniziato con le scuole superiori molte famiglie erano orientate, per i propri figli, a studi che facilitassero la conquista di un posto fisso. Ti sei iscritto a Ragioneria al Cattaneo di Milano perché quel tipo di scuola ti interessava o perché la tua famiglia ti ha convinto a farlo?
«C’era una ragione: mio padre aveva problemi cardiaci che oggi si curerebbero molto facilmente, lavorava ed era sempre pieno di iniziative. E allora mia madre mi convinse a prendere un diploma che mi consentisse di trovare celermente un impiego. Il diploma l’ho conseguito in maniera rocambolesca, con uno scambio: io ho passato a un amico il compito di tedesco, in cui ero bravo, e l’amico mi ha passato il compito di ragioneria, materia che non potevo sopportare. Alla fine delle medie i professori mi avevano consigliato il liceo classico: riuscivo bene in latino (voto 10) e in tutte le materie letterarie, conoscevo bene l’inglese per un mio personale interesse. Quando ero piccolo (12 anni) Papà mi accompagnava in una edicola vicina alla Scala dove trovavo l’edizione originale di Topolino e lo compravo perché volevo apprendere il modo di parlare degli americani, confrontandolo con l’edizione italiana. Questo mio interesse per le lingue mi è poi servito per scegliere il lavoro.
Ero affascinato dai viaggi. I miei genitori erano molto aperti e in terza media mi lasciarono andare in treno, col mio compagno di banco, a Copenaghen, meta suggerita da mio padre. Fu una esperienza unica, un mondo totalmente diverso rispetto alla nostra Italia bigotta.
A 18 anni andai in Inghilterra con un amico. A Londra ci trovammo in breve senza soldi e ci salvò il padre del mio compagno di viaggio, il quale scrisse una lettera a un suo importante cliente inglese, che ci trattò con ostriche e champagne, ospitandoci in una villetta tutta per noi. Diventammo amici di suo figlio che suonava il basso, scriveva testi per il cinema e aveva un bel giro di fanciulle. Ci trattenemmo alcuni mesi. Anche questa fu una esperienza indimenticabile. Al rientro a Milano mi resi conto che era giunto il momento di trovarmi un lavoro. Papà non c’era più. In quel periodo c’erano anche possibilità di scelta e io optai per un impiego all’aeroporto di Linate, dove fui assunto non in forza del mio diploma ma per l’ottima conoscenza dell’inglese, buona del tedesco, anche se non brillante il francese. Lavorai a un banco del check-in, punto privilegiato che mi consentiva di incontrare tanti personaggi come Callas, Onassis e attori famosi. In quel tempo erano pochi a viaggiare in aereo e Linate era come un salotto dove lavoravano come hostess di terra le figlie della buona società milanese. Nel settore internazionale, poi, si potevano trovare cose introvabili all’esterno. Ho resistito due anni in quell’attività, poi me ne sono tornato in Inghilterra ad affinare ulteriormente il mio inglese».
Quando hai cominciato a lavorare con Renato?
«Nel 1964 abbiamo iniziato a fare questo lavoro stimolati da Velia e Tinin Mantegazza, che avevano aperto una galleria d’arte di fianco all’Osteria dell’Oca d’Oro, di cui eravamo assidui frequentatori. La Muffola, così si chiamava la galleria dal nome del forno in cui si cuoce la ceramica, poteva considerarsi la succursale milanese del gruppo di artisti di Albisola, tra cui Fontana, Rossello, Cassinari, Crippa. In luglio e agosto anche Velia e Tinin si ritiravano ad Albisola a creare ceramiche, aggiungendosi al gruppo di artisti e intellettuali che frequentavano quella località».
Facevi anche spettacoli da solo?
«Sì, molte volte, fin da ragazzino. Facevo cose da solo nei teatri parrocchiali con il mio gruppetto di musicisti (piano e chitarra). Io cantavo canzoni popolari, spesso inglesi, irlandesi e scozzesi perché le conoscevo bene.
Alla sera insieme a Renato andavamo alla solita osteria, dove incontravamo tanti personaggi famosi, pittori e scrittori, come Umberto Eco, Luciano Bianciardi, Lucio Fontana, Roberto Crippa, che erano diventati amici, C’erano anche soggetti strani, o forse strani lo erano un po’ tutti. In quel periodo si percepiva una grande voglia di tornare alla normalità dopo la guerra ed era diffusa la spinta a ricominciare, a progettare, a ricostruire la vita di tutti, la nostra vita, Milano e l’Italia. In quegli anni, anni ’50, anche questi artisti mostravano la stessa spinta a guardare avanti e le loro discussioni erano esclusivamente centrate su politica e arte. Erano tutti assolutamente squattrinati, pagavano con i quadri le cose di cui avevano bisogno (cibo, abbigliamento ecc.). Tra i pittori c’era anche Piero Manzoni, che aveva lasciato la sua famiglia (nobile) e il mondo che la rappresentava vivendo in una stanza con un bagno senza riscaldamento e facendo la fame. Quando mi mostrò la sua creazione, decisamente provocatoria – una scatoletta di metallo – io gli dissi che ero contento perché finalmente avrebbe mangiato. Pensavo fosse una scatoletta di tonno. Dopo avermi insultato, mi mostrò la scritta sulla scatoletta. Lessi “Merde d’artiste”, però era in francese. Non ebbe il tempo di vedere gli effetti di questa provocazione perché morì a 30 anni, ancora quasi sconosciuto ai più. Oggi quella sua scatoletta è quotata intorno ai 150mila euro. Era una provocazione forte, come i tagli di Fontana, le spirali di Crippa che andavano tutte capite ma stimolavano dibattiti, portavano comunque cultura. Quando alcuni ci dicevano che le nostre cose erano strampalate, noi all’inizio eravamo preoccupati, i pittori ci confortavano: “pensate a quello che facciamo noi!”. Questo è l’humus in cui siamo cresciuti».

Frequentare persone adulte con un vissuto a dir poco impegnativo essendo molto giovani come voi comporta rischi immaginabili, che avete evitato. Quindi eravate molto equilibrati e coraggiosi.
«In effetti è così. In tarda ora si aggiungevano ai soliti clienti dell’osteria “mignotte” e protettori per bere qualcosa a fine attività. L’ambiente poteva diventare pericoloso perché quel tipo di uomini menava le mani con estrema facilità. Questa storia è esemplare: un pittore giovane che frequentava la nostra osteria, Francimei, avrebbe voluto suicidarsi ma non trovava il coraggio di compiere quel gesto, quindi andava a provocare i protettori, sperando che gli risolvessero il problema. Conobbe, sempre in osteria, un giovane impiegato di banca, un ragazzo semplice, che il pittore iniziò a tutti i riti notturni di quel tipo di locali. Una sera lo portò a casa sua, si sedette di fronte a lui, gli allungò una pistola dicendogli: “spàrami”. E il ragazzo sparò, uccidendo il pittore e rovinandosi la vita. Era duro non farsi influenzare perchè, rispetto alla normalità, questi artisti avevano un forte ascendente».
Parliamo del Derby
«Fu Enzo Jannacci a proporci di traslocare nel 1965 nel locale per eccellenza dei cabaret milanesi in viale Monte Rosa 84. Non era molto lontano dall’ippodromo ed era frequentato da chi gravitava nel mondo dei cavalli, allibratori, giornalisti sportivi, proprietari di scuderie o semplici appassionati. Chi governava il locale erano Gianni e Angela Bongiovanni, zii materni del giovanissimo Diego Abatantuono. Enzo ci convinse, accettammo subito e restammo al Derby dieci anni, fino al 1975».
Non avete mai avuto scontri o dissidi, tu e Renato?
«Renato e io eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, amici da sempre, nati a pochi mesi di distanza da genitori che erano amici prima che noi vedessimo la luce, le mie sorelle maggiori erano amiche dei fratelli maggiori di Renato. Anche durante la guerra le nostre due famiglie avevano vissuto vicine serenamente, nonostante la tragicità del periodo. Giocavamo insieme da piccoli, eravamo come fratelli. Tra me e Renato si può parlare di affinità elettive, complementari. Come carattere e interessi siamo diversi, ma la diversità ha creato una sorta di simbiosi che ha funzionato. Non abbiamo mai litigato, c’è sempre stato rispetto reciproco. Io ero un po’ dandy, per i miei tanti amici inglesi e gli stretti rapporti con l’Inghilterra, amavo la lettura, le mie curiosità erano rivolte ad altre culture che non conoscevo, quindi i viaggi, cominciando da quello della terza media di cui ho già parlato. Renato invece amava la velocità, auto, moto, era avventuroso, ha fatto la Parigi-Dakar, le Millemiglia».
Cabaret e cinema insieme, poi le vostre strade si sono divise
«È vero, io volevo seguire il filone del teatro di prosa, era quello che avevo in pectore. All’età di 14 anni facevo già parte della Compagnia dilettantesca dell’Angelicum, che allora era un teatro, quindi facevo già l’attore.
Poi ho fatto quello che ho fatto, mi piaceva la musica, sapevo cantare. L’aver conosciuto Jannacci (eravamo praticamente un trio), Gaber, Lauzi, Toffolo, Andreasi, lavorare con loro è stata una cosa meravigliosa. Lauzi, grande attore, aveva una voce intonatissima e ho imparato molto da lui. Quando facevamo cabaret venivano i colleghi a vederci, avevamo sempre voglia di creare cose nuove, non andavamo mai a dormire. Nel 1972 ci chiamò Romolo Valli, direttore artistico del Festival dei Due Mondi di Spoleto, per mettere in scena un lavoro di Ennio Flaiano, “La conversazione continuamente interrotta” con la regia di Vittorio Caprioli: noi accettammo subito. Ho avuto la fortuna di conoscere Flaiano, di vederlo tutti i giorni, tutte cose che arricchiscono. Fu comunque la nostra prova del nove: io ebbi la conferma che quello era il mio mondo mentre Renato, pur avendo lavorato bene, ebbe la conferma che quello non era il suo mondo perché non gli piaceva il lavoro dell’attore.
Abbiamo comunque fatto ancora teatro insieme, Renato e io, ma per altro tipo di spettacoli. Dopo vent’anni ci siamo riuniti, abbiamo affittato il Teatro Nazionale per il piacere di cantare ancora le nostre canzoni; pensavamo sarebbero venuti a vederci un po’ di coetanei, invece anche i giovani: 1.500 persone ogni sera per due mesi. Abbiamo quindi deciso di continuare e allora abbiamo rifatto un revival per 14 anni.
In teatro ho recitato diversi generi, da Feydeau all’Amleto di Laforgue, tradotto da Flaiano, che è una parodia dell’Amleto di Shakespeare e tanti altri autori. Ho fatto il teatro serio ma anche farse.
Mi piaceva e mi piace lavorare con altri anche se ho recitato monologhi; recitare è come una seduta psicanalitica, quando ti cali nel personaggio ti sdoppi e vivi la vita di un’altra persona».
Al cinema hai recitato con registi importanti come Lattuada, Dino Risi, Monicelli, Sordi e attori importanti.
«Pensa che ho fatto il mio primo film con Max von Sydow, grande attore bergmaniano (Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, La fontana della vergine e tanti altri). Quando l’ho incontrato la prima volta gli ho detto che ero terrorizzato; era una persona meravigliosa, mi ha messo a mio agio tranquillizzandomi ; mi ha detto di non preoccuparmi e di guardare come lavorava lui perché mi sarebbe servito. Poi siamo diventati amici. Avevo conosciuto nel tempo molti attori che, dopo la nascita del Derby, venivano a vedere che cosa eravamo e cosa facevamo perché a Roma non esistevano realtà come la nostra. Il fatto di aver creato questo parterre a Milano ci portava quindi a conoscere cinematografari, registi e attori come Ferreri, Sordi, Tognazzi e tanti altri. A Roma non esistevano cabaret, solo night magari con un comico oppure l’avanspettacolo.
Tutte le sere si mandavano via duecento persone perché era sempre tutto esaurito. Venivano anche colleghi d’oltralpe come Charles Trenet, Barbarà, Serge Reggiani, Charles Aznavour».
Gianni Agnelli aveva dichiarato che la domenica pomeriggio, quando eravate voi in TV, smetteva di giocare a golf per accendere il televisore
«Sì, è così. Questo interessamento nei nostri confronti da parte del mondo degli artisti, degli intellettuali e di grandi industriali, oltre ai giovani e giovanissimi, ci salvò dal controllo eccessivo dei funzionari romani della RAI, che pensavano di doverci tenere d’occhio perché pericolosi e, insieme a Paolo Villaggio (pericoloso anche lui) ci facevano prudenzialmente contratti settimanali. Va detto che il presidente RAI Bernabei aveva invece capito che era giunto il momento di cambiare linguaggio».
L’ultimo lavoro teatrale?
«Nel mio ultimo lavoro in teatro sono un anziano omosessuale che si trova a spiegare l’amore a un ragazzo un po’, come dire, terra terra. Devo dire che mi è piaciuto entrare in quella realtà, è un testo bellissimo di un autore spagnolo, Juan Carlos Rubio. Al ragazzo muore il padre, un gelido avvocato tutto d’un pezzo. Cercando tra le sue carte scopre un pacco di lettere d’amore appassionate, firmate da un uomo. Non riesce a spiegarsi come sia possibile una situazione del genere, soprattutto pensando a quel padre glaciale e allora va a cercare chi le ha scritte. Lo trova e viene a sapere che quell’uomo mandava le lettere al padre ma chiedeva, come unica risposta, un foglio bianco. In realtà tra i due c’era stato solo un rapporto epistolare. Il padre spediva il foglio in bianco e questo fa pensare che ci fosse forse dell’affetto. Il figlio non capisce questo amore virtuale e il vecchio omosessuale lo sgrezza, gli fa una lezione d’amore con grande intelligenza e sensibilità. È un lavoro che ho fatto prima della pandemia e le ultime recite le ho fatte al Puccini».
Progetti?
«Sarò a Milano, al Teatro Gerolamo, il 14 marzo prossimo per raccontare, con un complesso jazz, la vita di Charlie Parker.
Sto ragionando sulla proposta di un film che ha per protagonisti due anziani in fuga d’amore e porterò in giro un lavoro che ho già fatto, anche nelle chiese: “Confessioni del nocchiero di Magellano”. Il grande navigatore portoghese che viene ucciso nelle Filippine senza che nessuno faccia qualcosa per salvarlo. Al ritorno in patria dell’equipaggio, il nocchiero si prenderà onori e soldi al posto del comandante ma, a ottant’anni, si pentirà pubblicamente delle sue malefatte.
Inoltre da quasi un anno vado in giro a promuovere il mio libro, ho richieste da tutt’Italia».
A proposito del tuo libro “La versione di Cochi”, edito da Baldini+Castoldi, posso dire che è un documento sulla storia della nostra città in un particolare periodo, intrecciato con la tua vita e con quella dei tuoi amici che, con te e Renato, hanno creato il Derby e lo hanno fatto diventare il simbolo di una Milano che sapeva ridere con intelligenza e ironia.