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“Senza artigianato si ferma anche Milano” 

di Roldano Radaelli

“In Italia, il tasso di mortalità delle imprese artigiane è enorme. In 10 anni si sono perse 400mila attività. Nel 2014 erano un milione e 770mila, mentre ora sono un milione e 370mila. Un 22% in meno che dice in modo chiaro e sintetico della crisi di vocazioni del settore, più grave in alcune regioni come Marche, Umbria, Abruzzo e Piemonte, ma che riguarda comunque altre aree che per il momento riescono ancora tenere. La decrescita descritta dai dati d’altra parte, è costante e confermata dalla diminuzione del 5% (meno 72mila unità) nel 2024 rispetto al 2023. Crescono i titolari più anziani, specie nella fascia che andrà in pensione nei prossimi 10/15 anni mentre crollano gli under 30. A Milano si resiste ma solo grazie agli stranieri che sono uno su due, Se togliamo i tassisti dai dati, il numero delle imprese artigiane italiane precipita. Eppure senza artigianato si può fermare anche una città come Milano, pensiamo solo alla filiera casa o ai servizi alla persone”.

La causa principale del fenomeno, come osserva Marco Accornero, segretario generale dell’Unione Artigiani della Provincia di Milano, è il calo demografico, a cui si aggiunge una società che non sa orientare adeguatamente i giovani, con una visione culturale che sminuisce i mestieri manuali che richiedono impegno, sia in termini di orari che di fatica. La risposta, oltre alla necessità di stimolare la creazione di nuove imprese artigianali, potrebbe risiedere nella formazione, nel recupero dei Neet e nell’integrazione di lavoratori stranieri adeguatamente formati, inseriti in Italia attraverso progetti di inserimento nel mondo del lavoro.

Quali opportunità offre l’artigianato dal punto di vista professionale?

«Quando pensiamo agli artigiani, immaginiamo figure come il panificatore, che sta scomparendo, o l’idraulico e l’elettricista, sempre più difficili da trovare. Ma ci sono anche piccole imprese nel settore metalmeccanico che faticano a trovare giovani per continuare l’attività. Questo impatta anche i sistemi produttivo industriali, che fanno fatica a trovare fornitori in grado di garantire prodotti di qualità. È un problema che riguarda tutto il Paese».

Oltre al calo demografico, c’è anche un problema di orientamento dei giovani? Perché si allontanano dalle professioni artigiane?

«C’è ancora una visione antiquata dell’artigiano, come il “Geppetto” che lavora in un ambiente polveroso. In realtà, l’artigianato è tecnologia, creatività e un lavoro sicuro. L’allontanamento dalle professioni artigiane è un fenomeno culturale: i giovani preferiscono lavori d’ufficio, con giacca e cravatta, anche se guadagnano meno di 1.300 euro al mese. Inoltre, molte professioni artigiane sono impegnative, richiedono lavoro anche il sabato e la sera. In una società in cui il lavoro non è più la priorità assoluta, ma deve essere bilanciato con altre attività, compreso il tempo libero, non sorprende che molti si allontanino da questi mestieri».

Non si ha paura di correre il rischio di lavorare troppo e finire tardi la sera?

«Non è una questione di scansafatiche, ma di mentalità. Anche quando il lavoro è ben retribuito, se comporta orari scomodi, come lavorare fino a tardi o nei weekend, molti preferiscono altre attività che lasciano più tempo libero. Questo fenomeno è legato al calo della popolazione attiva: al Nord il problema è meno evidente grazie alla presenza di immigrati, ma se consideriamo solo gli italiani, il calo sarebbe ancora più marcato. Il problema, comunque, si farà sentire anche qui».

Qual è la soluzione? Cosa bisogna fare a breve e a lungo termine?

«Prima di tutto, bisogna puntare sull’orientamento e sullo sviluppo dei Centri di Formazione Professionale e degli ITS (Istituti Tecnici Superiori) nell’ottica del percorso dei 4+2 anni ora diventata realtà, per dare ai giovani una visione più moderna delle professioni tecniche. In parallelo, sarà necessario aumentare i flussi migratori. Io, nato nel 1963, ricordo che ai miei tempi nascevano un milione di bambini all’anno, oggi siamo scesi a 300mila, e in due anni perdiamo una città come Milano. Per quanto riguarda gli stranieri, sarebbe ideale formare le persone nei loro Paesi di origine, prima che arrivino in Italia. Certo, stiamo parlando di questioni complesse, ma credo che una migrazione più organizzata possa essere una parte della soluzione».

Come reagisce il sistema artigiano a queste carenze?

«Molti artigiani cercano di trattenere o richiamare ex dipendenti che sono andati in pensione, chiedendo loro di lavorare ancora qualche ora. Tuttavia, questa è una strategia limitata». 

Quanto conta il vissuto familiare nelle scelta di fare o non fare impresa?

«Le famiglie italiane spesso trasmettono ai giovani i propri vissuti, che condizionano scelte e sogni. Chi cresce in famiglie abituate alla stabilità – impiegati, insegnanti, dirigenti e professionisti ad alto reddito – apprende che la carriera sicura è prioritaria. Di conseguenza, l’idea di mettersi in proprio assume una connotazione di “fuga dalle regole”, dal buon senso, senza parlare della paura del fallimento, sia economico e come stigma socale. Inoltre, le famiglie senza patrimonio o che vengono da tradizione di lavoro dipendente spesso non possono offrire né capitale iniziale (economico o relazionale) né esperienze dirette nell’impresa. E quando questi supporti mancano, il giovane si ritrova solo: senza garanti, senza consigli pragmatici, senza contatti utili a servizi, fornitori, clientela. In molti casi, persino il linguaggio familiare sceglie termini come “saltare nel vuoto” o “non illuderti”, che instillano una forma di diffidenza. Questo vissuto incide in modo forte: il giovane percepisce l’imprenditorialità come un salto nel buio, spesso non mitigato dall’esperienza d’altri. 

Dall’altra è comprensibile comprendere che un giovane scelga una vita meno impegnativa  se ha vissuto in famiglie titolari di attività artigiane, crescendo “a pane e impresa” tutti i giorni, e affrontando i picchi di lavoro e di fermo, crisi, pagamenti in ritardo, scadenze, liti legali, infortuni, burocrazia».

Quanto pesa la mancanza di educazione finanziaria e l’ignoranza sulla conoscenza basilare dei costi aziendali?

«L’educazione finanziaria nelle scuole italiane rimane insufficiente e nessuna scuola insegna ai giovani il ruolo degli enti in Italia. Per molti ragazzi nomi come Inail, Inps, Agenzia delle Entrate sono oggetti avvolti da una confusa nebbia. I giovani spesso non capiscono appieno ciò che comporta redigere un business plan, gestire un bilancio aziendale: costi fissi tra affitto, utenze, contributi, o costi variabili (materie prime, manutenzioni, assicurazioni), costi di personale, ammortamenti di macchinari, oneri fiscali e previdenziali. Non esiste una consapevolezza reale della marginalità operativa e della necessità di liquidità minima. In molti casi, chi apre un laboratorio artigiano non ha mai pianificato flussi di cassa o ipotizzato scenari negativi. Il risultato? Fatture emesse ma stipendi e contributi non coperti. Per i giovani – e specialmente per le donne e i NEET, tradizionalmente le fasce sociali che hanno meno accesso a queste informazioni – queste situazioni causano indebitamenti, esaurimento capitale proprio e chiusura anticipata dell’attività. Per questo motivo, misure come i corsi formativi obbligatori legati all’educazione finanziaria diventano essenziali.

Elaborare un business plan credibile richiede inoltre competenze tecniche, capacità di previsione, chiarezza sugli investimenti e sui ricavi, oltre a una buona capacità di storytelling. Tuttavia, nei giovani sotto i 35 anni, questo processo risulta spesso astratto e poco realistico. 

Non è poi tutta e sola colpa delle nuove generazioni. il sistema bancario è “lontano” dalla comprensione delle potenzialità dei progetti giovanili: i criteri di valutazione restano rigidi, complici requisiti patrimoniali elevati e croniche diffidenze clamorose . Da qui la necessità di strumenti pubblici: contributi e interventi misti tra contribuzioni, finanza agevolata e tutoring. Nonostante ciò, il ricorso al credito bancario tradizionale resta basso, con i giovani che spesso rinunciano prima ancora di tentare».

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Numero 03-2025

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