Quando Darwin a 22 anni iniziava il proprio viaggio intorno al mondo, la paleontologia muoveva i primi passi e la storia naturale era fitta di false certezze. Si era certi ad esempio che prima dell’importazione dei cavalli da parte dei conquistadores spagnoli, questi nobili animali non avessero mai galoppato per le praterie americane.
Non si aveva idea che in America fino alla fine del Pleistocene abitassero mammut, armadilli giganti, grandi ungulati, enormi bradipi, e altri mammiferi. In effetti i grandi animali, escluso l’alpaca e il lama, furono importati in America dagli europei solo a partire dalla prima metà del 1500. Eppure, dopo altri trecento anni, un ragazzo di nome Charles Darwin inciampava esattamente in un dente di cavallo fossile. Un bel grattacapo.
Cosa ci faceva un fossile di cavallo in Argentina? Ora sappiamo che la sparizione dei grandi erbivori nelle Americhe coincide grossomodo con la diffusione umana nel continente americano, tredicimila anni fa. Animali che avevano pacificamente brucato per oltre tre milioni di anni scomparvero velocemente durante l’ultima grande glaciazione, quando una striscia di terra collegava Siberia e Alaska, consentendo il passaggio a piedi nel continente americano dei primi gruppi di uomini.
Poi si sciolsero i ghiacci, il livello dei mari si alzò e lo stretto di Bering divenne una barriera insuperabile, isolando le Americhe dall’Eurasia fino a Colombo. Quando dopo tredicimila anni gli europei si riaffacciarono sul continente americano per guardare negli occhi i loro antichi fratelli, i nativi risultavano privi di animali forti e mansueti cui attaccare un aratro, cavalli disposti a dare un passaggio, cani da caccia per rastrellare i boschi, greggi e mandrie tolleranti alle pratiche dell’allevamento.
Ma il lato più oscuro di questa assenza di animali domestici era invisibile e microscopico: fu un’invasione di microbi contro cui nativi non poterono nulla, perché non erano affatto… vaccinati.
In Eurasia infatti la sopravvivenza preistorica di molti animali aveva permesso la domesticazione di alcuni, gettando le basi per una stretta convivenza. La vicinanza uomo-animale aveva favorito poi la circolazione di microbi ai quali ci siamo adattati, generando anticorpi e difese immunitarie di massa contro vaiolo, morbillo, varicella, tubercolosi, peste. L’osservazione di questa immunizzazione spontanea ha fornito in tempi moderni lo spunto creativo per i vaccini che conosciamo, a partire dal primo, derivato dal vaiolo delle mucche, generosi animali cui va ovviamente tutta la nostra riconoscenza.
Negli ultimi 200 anni le campagne di immunizzazione hanno coinvolto prima le persone, poi gli animali da reddito e infine gli animali da compagnia con la formulazione di vaccini sempre più efficaci e sicuri.
Oggi vacciniamo i cavalli dal tetano, i cani dalla leishmaniosi, i gatti dalla leucemia, vacciniamo conigli, uccelli, bovini, suini… è impossibile ricordare da quante malattie proteggiamo i nostri animali domestici attraverso la vaccinazione.
La vita che abbiamo attualmente si innesta sulla convivenza millenaria con animali e malattie, e genera un bisogno di salvaguardia e protezione che non ha misura nella storia umana. Stare senza animali domestici non è possibile, non è sano e storicamente non è vincente. Non possiamo fare a meno dei nostri animali, ma purtroppo tracciamo un solco netto tra loro e gli altri: a parte pochi selvatici considerati carismatici, trascuriamo quasi del tutto pesci, anfibi, piante e insetti. Ma specie animali che oggi consideriamo dannose o inutili, potrebbero non esserlo in futuro. In futuro potremmo aver bisogno di un particolare insetto o di una certa pianta? Veramente non lo sappiamo, ma lo studio degli errori del passato, diciamo dal Pleistocene in avanti per rimanere comodi, è un buon punto di partenza per guardare con occhi diversi perfino le zanzare.