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Il meccanico che salva i gatti

Figlio d’arte, nato praticamente in officina, Paolo Lea Casagrande nel suo maggiolino ascolta Elvis e sogna la natura.

Quasi nascosta tra le vie Prinetti e Padova, in via Mamiani al 12, c’è l’Autofficina Lea Casagrande, che quest’anno gira la boa dei cinquant’anni di attività. Chiediamo al titolare Paolo Lea Casagrande di raccontarcene brevemente la storia.

«L’officina nasce nel 1971 in via Popoli Uniti grazie ai miei genitori Annamaria ed Emilio, nel momento in cui mio padre si sentì pronto, dopo aver lavorato come meccanico, a vivere la sua iniziativa imprenditoriale. Lì, è andato avanti per venticinque anni. In seguito, in parte per accompagnarmi nella carriera lavorativa e in parte perché, rispetto agli anni Settanta, le au­to si sono fatte sempre più grandi e quindi era necessario uno spazio maggiore, abbiamo trovato questo posto che, all’i­nizio ci sembrava enorme e invece si è riempito molto velocemente. Poi, verso la fine de­gli anni Novanta, ho preso io le redini, an­che se erano già diversi anni che lavoravo insieme a papà, e ho cercato di portare avanti l’officina introducendo innovazioni come per esempio l’elettronica, che oggi è diventata preponderante nelle auto, e le conversioni ai carburanti gassosi che a livello ecologico rimangono imbattibili. Così, poco per volta, siamo cresciuti e, da una sola persona, oggi siamo in cin­que. Infatti i tempi sono cambiati e il classico meccanico come mio padre, che era in grado di trovare un gua­sto semplicemente ascoltando il motore, è andato un po’ in crisi con l’avvento dell’elettronica. Per fortuna è accaduto proprio nel momento in cui ho cominciato ad affiancarlo con idee e passioni nuove che ci hanno permesso di superare brillantemente questa transizione».

Come si è avvicinato a questo lavoro?

«Praticamente sono nato in officina, sono un figlio d’arte. È stata una naturale evoluzione, anche perché studiando elettronica, mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto».

La prima volta che ha dovuto mettere le mani su un motore da solo?

«Eravamo ancora nella vecchia officina di via Popoli Uniti e credo fosse una Fiat 127. Un po’ di timore c’è stato, ma anche tanta voglia di dimostrare che potevo far­cela».

Ci sono automobili che hanno maggiori problemi rispetto ad altre?

«Quelle mal tenute. Io penso che oggi tut­te le auto possano raggiungere tranquillamente i 300mila chilometri, a patto di manutenerle. Un’automobile ben tenuta può andare avanti anni e centinaia di migliaia di chilometri, un’automobile mal tenuta, anche se di un marchio di prestigio, comunque decadrà in breve tempo. 

Purtroppo spesso si parte dall’idea che i programmi di manutenzione siano pensati, specialmente da parte delle case madri, per spennare ulteriormente i clienti, mentre invece non fanno altro che applicare ciò che i loro ingegneri hanno verificato attraverso studi e sperimentazioni per ottenere il massimo in termini di longevità e prestazioni».

La cosa che ama di più in questo lavoro e quella che odia.

«Ciò che amo di più è il rapporto con le persone. E le soddisfazioni che si provano quando si risolve un problema che a volte non è di facile soluzione. La cosa che o­dio è la medesima: scontrarsi spesso con situazioni che sembrano quasi impossibili da risolvere. Ma ripeto, quando arriva un cliente al quale siamo riusciti a risolvere un qualsiasi problema con una tortina fatta in casa ti dici: “ma allora c’è ancora una fetta di umanità, di rapporti umani!”. Specialmente perché non ci troviamo certamente in una delle zone più ricche di Milano e per questo cerchiamo comunque di trovare una soluzione ideale e adatta alle esigenze economiche di chiunque».

Quindi possiamo dire che il mestiere si è fatto più complesso rispetto a quando le auto erano completamente meccaniche?

«Diciamo che un tempo contava molto più l’esperienza. Non che oggi non sia importante, ma ora bisogna considerare molti più fattori per risolvere un problema. Era molto più semplice sotto il punto di vista diagnostico-risolutivo anche se io sono fra i sostenitori dell’elettronica; basti pensare al servosterzo, l’aria condizionata, gli airbag, le cinture con pretensionatori, l’abs… ma vale sempre la regola che me­no cose ci sono e meno si possono rompere».

Secondo lei quale sarà l’ulteriore evoluzione delle automobili?

«Penso che nel prossimo futuro andremo sempre più verso l’ibrido elettrico a discapito dei motori endotermici classici dei quali oggi stiamo pagando i danni di una gestione un po’ troppo lassista verso le emissioni inquinanti. Un futuro verso il quale ci stiamo preparando».

Qual è per lei il cliente ideale o quanto meno quello più corretto?

«Ce ne sono tanti, perché secondo me il  “signore” è quello che nutre educazione e rispetto verso il lavoro altrui. Perché crediamo che la gentilezza generi gentilezza. Il “signore” non è legato a uno sta­to sociale, ma è chi ha rispetto per gli altri. Abbiamo incontrato operai gentilissimi che hanno anche lasciato la mancia ai ragazzi e avvocati che si sono messi a urlare per cose di nessuna importanza».

L’attrezzatura che usate si è evoluta negli anni?

«È cambiata tantissimo e continua a cambiare anche se ci sono ancora i vecchi classici “ferri”, ma è necessario integrarli con strumenti diagnostici e attrezzature che servono a fare lavori specifici e che hanno costi decisamente superiori al vecchio cacciavite di una volta».

Qualche aneddoto curioso a proposito del suo lavoro?

«Salvare gatti. Spesso arrivava qualche cliente che lamentava di sentire rumori strani e poi ci accorgevamo che c’era il classico gatto incastrato nel motore, uno dei quali è stato adottato da noi e vive ancora a casa di mia mamma, anche se quando mi vede scappa sempre. Oppure quando qualche cliente mi porta una vettura che arriva da chissà quale parte del mondo e che per noi diventa quasi una sfida riparare, ma ci proviamo sempre e comunque».

Chi si occupa di automobili è anche appassionato di sport motoristici?

«No, non necessariamente. Esistono grandissimi meccanici a cui non importa nulla del mondo delle corse ma che amano la precisione e l’ingegno umano che c’è dietro la creazione di un’automobile».

Sono molti i clienti che suggestionati magari da alcuni programmi tv le chiedono di elaborare l’auto?

«Tanti, tantissimi. Ragazzi e persone più mature. Soprattutto una ventina d’anni fa. Ora sono molto meno, anche perché i costi non sono indifferenti e un’auto elaborata in quel modo non è un’auto da tutti i giorni o da città».

La sua auto preferita?

«Mi piace molto il maggiolino della Volkswagen e le vecchie Porsche come anche le supercar di oggi, ma semplicemente perché amo le cose fatte bene».

Se potesse o dovesse cambiare lavoro, cosa farebbe?

«Soffrirei, ma se per qualsiasi motivo fossi obbligato a fare qualcos’altro penso che mi dedicherei all’agricoltura, rispettando i tempi della natura».

Il quartiere: com’è, com’è cambiato

«Il quartiere si è evoluto, è sicuramente cambiato, secondo me in meglio. Nonostante i giornali a volte parlino male di via Padova, non penso sia mai stato un luogo così problematico come è stato descritto. C’è stata una naturale evoluzione, un cambiamento di gente, di etnie e di tante altre cose che l’hanno portata a essere diversa, sicuramente migliore rispetto a dieci o quindici anni fa. Vedo la gente più tranquilla, tutto funziona abbastanza bene e in realtà è come un piccolo paese e alla fine ci si conosce quasi tutti. Forse non siamo ancora pronti a grandi cambiamenti legati alle varie etnie, ma penso che con il tempo funzionerà sempre meglio».

Un sogno nel cassetto?

«Per me è godere ogni giorno, apprezzare ogni cosa che vivo quotidianamente. Sono una persona con i piedi per terra e quindi non nutro grandi ambizioni se non vivere il più serenamente possibile».

La musica che preferisce ascoltare quando viaggia in auto?

«Elvis. Mentre in officina lascio la radio a disposizione dei ragazzi perché mi piace ascoltare cosa c’è di nuovo. Lavorare nel silenzio assoluto non è divertente né leggero».

Un consiglio ai giovani che volessero intraprendere la sua professione?

«Provarci! Studiando e facendo pratica. Noi collaboriamo con diversi istituti nell’ambito del programma scuola-lavoro e ci siamo accorti che, senza una motivazione seria, qualsiasi professione risulterebbe equivalente. Mentre chi è davvero motivato lo riconosci subito perché ha quella luce negli occhi che magari lo por­ta a strafare e lavorare di testa sua, ma in fondo è la stessa cosa che ho fatto anch’io con mio papà. Ma soprattutto imparare ad ascoltare, non solo i motori, ma il proprietario dell’auto, che si aspetta comprensione e che bisogna imparare a interpretare, bisogna essere empatici».

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