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Il blues è la musica di sottofondo della vita

Si può essere blues anche senza suonarlo.

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Fabio Treves, il Puma di Lambrate: armonicista di fama internazionale e cantante, è il re del blues italiano; ha fondato nel 1974 la Treves Blues Band, la prima band di blues nella storia della musica italiana, si è esibito negli Stati Uniti, patria del blues, e in ogni parte d’Italia. Milanese, studi classici al Carducci, università nel periodo caldo delle lotte politiche e la sua grande passione per la musica. Dichiara di compiere 70 anni nel 2019, ma si fa molta fatica a crederlo: il suo approccio con le persone, l’entusiasmo per il suo lavoro, per gli amici, per la sua band ne fanno un giovane con qualche capello brizzolato.

Che ricordo hai del percorso dei tuoi studi? 

«I miei genitori mi hanno sempre lasciato libero di scegliere. Pensa che, quando non avevo ancora vent’anni, mi hanno consentito di andare cinque giorni al famoso concerto all’isola di Wight. Ero un viaggiatore, molto intraprendente, ricordo un viaggio/avventura ad Amsterdam con un cinquantino della Guzzi per sentire i Pink Floyd.

Quando mi chiedono come mai il blues, con un po’ di autoironia rispondo che non ho mai lavorato nei campi di cotone del Mississippi, ma ho avuto la sofferenza equivalente di cinque anni al liceo Carducci.  Alcune soddisfazioni le ho avute, perché all’epoca ero anche un atleta di discreto livello, tesserato Pro Patria S. Pellegrino, una delle società sportive più titolate allora e anche oggi, e giravo l’Italia per le gare.     

Finito il liceo, ci sono stati gli anni dell’università, dell’impegno politico, la sede di via Festa del Perdono era la mia seconda casa. Avevo una buona media, nonostante partecipassi a numerose manifestazioni, ma devo ammettere che frequentavo più per motivi politici che studenteschi. Non ho concluso gli studi con la laurea, perché la vita ha preso un’altra piega, che si è rivelata la piega giusta, anche se al mio li­ceo avevano predetto, considerando i risultati, che non avrei combinato nulla di buono nella vita. 

Invece della mia vita sono soddisfatto, ho fatto e continuo a fare tanti concerti blues, sono un cittadino benemerito insignito dell’Ambrogino d’oro. Quando giro nel mio quartiere trovo sempre qualcuno che mi dice una parola di apprezzamento e questa è la cosa che più mi inorgoglisce. Difficilmente a Milano si trova qualcuno che mi vuole male, perché ho sempre cercato di portare la mia esperienza e il mio modo di vivere al servizio di nobili cause e di nobili progetti».

Quando è nata la tua passione per la musica e hai capito che sarebbe stata la tua vita?

«Mio padre era medico ma era anche un grandissimo intenditore di musica e a casa si ascoltava qualsiasi genere musicale. Quindi ho iniziato ad ascoltare musica fin da piccolo e tra i tanti generi che affascinavano, creavano atmosfere, suggestioni, ho scoperto il blues. Era un blues acustico, campagnolo, dei primordi. Quando sono diventato più grande, negli anni ’60, la musica che arrivava dall’Inghilterra, che qui chiamavano beat, non era altro che la rivisitazione dei brani che avevo ascoltato parecchi anni prima, poi ho sentito tanti concerti di gruppi famosi ed è nata la passione di tutta la vita. Dai primi strimpellamenti con gli amici sono ormai passati più di 50 anni».

È vero che, quando ci si porta dentro la musica, non si ha bisogno di nulla?

«Verissimo e aggiungo una cosa: mi sono reso conto che la gente capisce subito, per magia o per empatia, se tu quando suoni, riesci a trasmettere, a raccontare la tua passione, la tua vita, anche se un brano è strumentale. Tanti ragazzi, se non hanno amplificatori e strutture sofisticate non fanno niente, mentre ci sono musicisti che hanno continuato a suonare fino alla fine della loro vita, a novant’anni, facendo concerti in giro per il mondo. L’energia ti viene dal cuore, dalla testa, dalla passione, viene da te stesso: è questione di concentrazione. Prima di suonare mi concentro, che sia una concentrazione anomala, casereccia, che sia una preghiera, va bene. Quando vado sul palco devo dare sempre il meglio».

Il blues nasce dai neri d’America, esprime la sofferenza di un lavoro duro, senza speranza; il tuo strumento  struggente che prende al cuore,  discende da quel lamento?ù

«Hai fatto la domanda e hai dato anche la risposta. Quella situazione di sofferenza, ma anche di riscatto sociale, di lavoro duro che però ti dava la possibilità di suonare la sera nei locali malfamati o nei crocicchi, è comunque un qualcosa che ha dato vita al blues. Per me il blues è la musica di sottofondo della vita, rappresenta mille stati d’animo. Il blues è atmosfera, pensa a un momento di disperazione, oppure allo sguardo da cui scatta la scintilla di un incontro e dietro c’è un blues che accompagna l’amore, il sesso, il viaggio, o sei davanti a uno spettacolo della natura, che musica ti viene in mente? Non una musica grintosa, forse musica classica o un blues che ti avvolge. Col blues tutto è possibile. C’è il blues che viene dall’Africa, la Madre Africa da cui sono partiti quei neri in catene che sono stati messi a lavorare nei campi. Alcuni non ce l’hanno fatta e si sono trovati appesi a un albero circondati dagli incappucciati bianchi. 

Il blues è la risposta alla violenza dell’uomo, all’intolleranza, non sarà mai la musica di chi picchia le donne o i bambini all’asilo, di chi vuole un mondo puzzolente. È la musica di chi combatte per l’ambiente, per un mondo migliore, più tollerante, meno stressato. Difficilmente troverai una persona che dice di amare il blues, poi va in discoteca e si ubriaca o si droga».

Tu sei l’unico musicista italiano ad aver suonato con Frank Zappa e Bruce Springsteen. Emozioni?

«L’aver suonato con Frank Zappa è qualcosa che nessuno potrà mai togliermi. Quando venne a Milano e mi chiese di suonare con lui, pensai a uno scherzo, ma risentire la sua voce che annuncia “Mr. Fabio Treves”  mi emoziona ancora! Gli volevo bene come a un fratello maggiore. Quando Bruce Springsteen venne in Italia e tenne un concerto a Roma, al Circo Massimo, io suonai prima di lui davanti a 70mila persone. Al termine scesi dal palco e mi accorsi che era stato in prima fila ad ascoltarmi. Ci abbracciammo e mi disse che per la prima volta aveva avuto un’apertura così grintosa e mi chiese anche perché non andassi a suonare in America».

45 anni con la Treves Blues Band. Quali obiettivi per il futuro?

«Non me ne pongo. Vivo alla giornata, l’obiettivo primario è star bene , continuare a portare in giro la mia musica e andare d’accordo con la mia band. L’estate è densa di concerti in tutta Italia, giri frenetici da una parte all’altra del Paese, con successo ed entusiasmo a mille. Il mio è un pubblico eterogeneo, non è composto solo dai settantenni che mi conoscono, ma dai figli e dai nipoti».

È sempre la stessa band?

«Il batterista Massimo Serra è con me da 27 anni, il chitarrista Alex Kid Gariazzo,  da 25 anni, entrambi di Biella, il più recente è Gabriele Dellepiane, bassista ligure. In una band contano le dinamiche di gruppo, l’amicizia, l’affetto; loro si considerano fortunati per avere un capo band come me e io sono fortunato e orgoglioso di avere loro ogni sera. Ci vogliamo bene, ci si capisce, c’è rispetto, se c’è qualcosa che non va, ci si aiuta. Facciamo viaggi faticosi, pesanti, però sappiamo che il premio è trovare tanta gente che ti aspetta e apprezza la nostra musica. 

Provate a pensare cosa sono 45 anni di musica blues: ditemi se non è il vero miracolo italiano, perché questa è musica che non vedi in prima serata in TV, che non vedi sui quotidiani. Sono stato il primo a portarla in giro. Agli inizi mi chiedevano cos’è il blues. Nel mio piccolo sono riuscito a sdoganare una musica che era un genere sconosciuto, è una musica popolare non diffusa in Italia, mentre lo era in Inghilterra e negli Stati Uniti. Per coltivare questa passione e farmi ascoltare da tutti, ho dovuto timbrare il cartellino per 35 anni, perché occorre svolgere un altro lavoro in parallelo per garantirsi un reddito sufficiente. 

Quando hai un momento triste, è a quel punto che entra il blues. Si può essere blues anche senza suonare».

Il tuo impegno nel sociale è noto. Vai dove c’è la sofferenza e la tua musica può portare sollievo, serenità, speranza

«Quando vado a suonare in luoghi come l’Istituto dei Tumori, il Centro Redaelli, il Piccolo Cottolengo di don Orione o in un carcere, le persone che ho davanti stanno vivendo una situazione di sofferenza e capiscono il mio blues, a volte riescono a fatica a battere le mani a tempo ma mi dicono di tornare. La quintessenza del blues è questo, è un modo di essere, una filosofia di vita, è la solidarietà, la comunanza. Per me è anche un modo come un altro per ringraziare qualcuno o qualcosa del fatto che sono qui e vado ancora in giro a suonare, a raccontare…

Non ho mai voluto firmare un contratto o essere presente in televisione perché è una situazione che non ha niente a che fare con la musica, ma è solo business. Nei miei concerti scendo tra la gente senza chitarra elettrica o rumori e lì ricevo applausi incredibili. Pensa che il blues si può fare con qualsiasi strumento, anche su un asse di legno. Ho fatto centinaia di concerti in situazioni incredibili: davanti a una pompa di benzina, sotto la pioggia o in uno scantinato… soddisfatto di aver potuto contribuire a realizzare cose utili, importanti».

Che vuol dire per te vivere nella nostra zona 2?

«Ci sto da quarant’anni, la conosco molto bene e sono contento di viverci. Potrei girarla a occhi chiusi. Sono contento che sia migliorata nel tempo, animata, vivibile, che vuol dire uscire la sera con la famiglia e sentirsi tranquilli».

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